Il 25 agosto a Biasca per l’Open Air Spartyto. Il libro uscito a maggio, come il disco che arriverà, s’intitola ‘La mia casa’: ci siamo entrati
“Solo grandi successi”, come dicono alla radio. ‘Cosa resterà degli anni ‘80’, ‘Gente di mare’, o il suo Big Bang noto come ‘Self Control’. «Ma anche cose meno popolari come ‘Due’, ‘Iperbole’, che ho dedicato al mio secondo figlio», dall’omonimo album che contiene ‘Infinito’. «Grandi successi sì, ma non solo», dice Raf; secondo noi, “solo grandi successi”.
Ma non siamo qui a contestare Raffaele Riefoli, un integerrimo del miglior pop italiano che è andato nel mondo con rara eleganza, qualità e umiltà. L’ultima volta fu Castle On Air con l’amico Umberto Tozzi. Questa volta è Biasca, da solo, per gentile concessione di Horang Music e con Valentino Vivace in apertura (www.biglietteria.ch, www.spartyto.ch). La data è quella di venerdì 25 agosto, per il 33esimo Open Air Spartyto che si apre il giorno prima con ‘The Voice of Summer’, serata dedicata agli artisti di casa, e si chiude sabato 26 con il tributo a Michael Jackson (previo omaggio a Lucio Dalla). Dallo scorso maggio, Raf ha anche un’appendice letteraria intitolata ‘La mia casa’, libro scritto insieme al poeta e drammaturgo Cosimo Damiano Damato, dal titolo che ritroveremo pari pari sul nuovo album, dopo l’estate. «Ci saranno anche le ultime, ‘Cherie’ e ’80 voglia di te’»…
Cito dalle note che accompagnano ’80 voglia di te’: “Decennio dell’effimero che resta in voga, sempre e nonostante tutto”. Raf: era davvero tutto effimero negli anni ’80?
Venivamo da anni di eccessiva rigidità. Chi faceva musica doveva confrontarsi con la critica musicale. In quegli anni, anche una canzone come ‘Ti amo’ di Umberto, che trovo sia una bellissima poesia pop, col testo di Giancarlo Bigazzi, era considerata banale anche se non lo era affatto, e il tempo, come sempre fa, le ha reso giustizia. Il fatto è che se nel 1977, in una canzone, non c’era un brandello di impegno sociale, anche buttato lì, nemmeno tanto sentito, passavi per qualunquista o reazionario. Negli anni ’80 si è scoperto che anche la leggerezza ha la sua importanza, che la vita è una sola, e che la musica non era solo cantare di impegno, di lotta. Il pop ha un ruolo fondamentale in tutto questo, io lo vedo come un amico che ti dà una pacca sulla spalla nei momenti di sconforto, e ti può cambiare la giornata. È per questo contrasto, quindi, che si parla di anni dell’effimero, in quanto punto di rottura, soprattutto da noi in Italia.
Parole di George Michael dal documentario di Netflix, dette nel momento della consacrazione degli Wham!: “Per quattro o cinque anni, ‘pop’ è stata una parolaccia in Inghilterra. Noi crediamo fermamente che la musica pop sia molto valida e che la gente l’abbia perso di vista”. C’è ancora chi pensa che ‘pop’ sia una parolaccia…
Fortunatamente, negli ultimi anni il pop è stato riabilitato. Questa cosa risale agli anni ’80, e proprio grazie agli anni ’80 il pop oggi ha la sua importanza, lo sanno anche quei critici musicali che al tempo tanto lo snobbavano.
Negli anni ’80 gli Wham! citofonavano alle case discografiche fingendo di avere un appuntamento. Come è stata la tua gavetta? Anche tu citofonavi?
No. Venivo da esperienze punk, rivoluzionarie, e accadeva il contrario: erano i discografici a venire da noi. Avevo un trio, i Cafè Caracas, alla chitarra c’era Ghigo Renzulli, che poi avrebbe fondato i Litfiba; eravamo in pieno periodo post punk, new wave, subito dopo i Sex Pistols, avevamo un atteggiamento non forzato, ma distaccato. Io non ho mai partecipato a un talent, allora non c’erano; c’erano concorsi canori, cose come Castrocaro, che se vincevi andavi a Sanremo. Io non ho mai fatto nulla di questo, la mia gavetta è stata suonare il rock nelle cantine, nei festival rock, e quando arrivavano discografici a farci le proposte, noi li mandavamo via, perché ci divertivamo così, perché eravamo giovani e non volevamo nient’altro.
Gli anni dei Cafè Caracas erano quelli della contestazione, non si poteva salire sopra un palco senza prendersi qualcosa in testa. A voi successe aprendo per i Clash…
Fu una cosa mirata. Non eravamo noi quelli da contestare, perlomeno nelle intenzioni di chi venne in Piazza Maggiore a Bologna. C’era stato un tam tam tra i sostenitori dei RAF Punk, band molto politicizzata, che accusavano i Clash di essersi venduti al sistema, e quindi duemila punk assatanati sotto il palco volevano rovinargli la festa. Sul palco siamo saliti noi per primi e ci è arrivato di tutto, ma sarebbe successo a chiunque. Poi, quando i Clash sono partiti con ‘London Calling’, tutta la piazza ha pogato come se niente fosse successo. Però durante il concerto ho visto scene molto punk: ricordo un tizio, seduto sulle spalle dell’amico, che tentò di slacciare gli anfibi al bassista, che suonava al limite della pedana; il bassista gli tirò un colpo di basso in piena faccia, il tizio stramazzò al suolo e lo portarono via.
Da piccolo sognavi di essere inseguito da orde di fan come nel film dei Beatles, e quando questo è successo ti è presa l’ansia. Oggi come vivi la popolarità?
Avevo nove anni, rimasi folgorato da quel film. Chiaramente, la componente dell’essere idolatrati dalle ragazzine aveva il suo perché. Poi, quando ho cominciato a suonare, la cosa prevalente è diventata la musica. Alla reazione generata da ‘Self Control’, essendo molto timido, non ero preparato; francamente, non me l’aspettavo. Non ascoltavo la radio e non avevo capito che la canzone fosse già un successo in discoteca. Alla prima occasione pubblica, in un palazzetto pieno di gente, ci fu un inseguimento che mi colse di sorpresa, e capii che qualcosa era cambiato.
Che rapporto hai, oggi, con ‘Self Control’?
Ho provato imbarazzo quando giravo il mondo per la promozione. È accaduto tutto in fretta: l’avevo proposta a Bigazzi e all’editore Sugar pensando di non doverla cantare, ma loro vollero subito da me la versione italiana, che doveva essere l’originale, mentre quella di Laura Branigan doveva essere la cover. Ma Laura era già in studio e Jack White, il suo produttore, voleva farne il primo singolo. Ero impreparato a quel tipo di successo, con una canzone che in quel periodo non sentivo del tutto mia, che non faceva parte della musica che mi piaceva. Mi vestivo con le palandrane, gli occhiali scuri, cercavo di nascondermi. Oggi per ‘Self Control’ provo grande affetto, ho capito che tutte le canzoni che ho fatto, anche quelle frutto di compromesso con produttori e discografici e che non sentivo del tutto mie, erano comunque parte di me.
Sei cittadino di Miami da molto tempo. È per via del mare che un pugliese come te ha scelto di vivere in Florida?
Sì, Miami mi ricorda tanto Margherita di Savoia, dove sono nato, mi ricorda tanto la mia infanzia. Anche a Miami c’è un lungomare. Miami è una città relativamente grande, che offre tante cose, una città atipica perché almeno fino a prima della pandemia era considerata più latina che realmente statunitense, con tanti turisti europei trasferitisi lì, e qualche anziano americano che la sceglie per trascorrere la vecchiaia, visto che qualità di vita e il clima sono buoni. Oggi Miami è cambiata, è un po’ più americana, perché dopo la pandemia tanti americani hanno capito che lo smart working potevano farlo anche da un posto col mare, non così frenetico come New York.
Venendo a ‘La mia casa’: perché a un certo punto della vita si decide di scrivere un libro?
Io non ho parlato mai tanto di me stesso. Il primo libro (‘Cosa resterà…’, ndr) era solo una piccola parte. Sono sempre stato schivo, è una cosa mia naturale, cerco sempre di fare una distinzione tra vita privata e pubblica. Durante i due anni di pandemia ho cominciato a scrivere non solo canzoni ma anche la sceneggiatura di un film che parlava di me. Finita la pandemia sono cominciati i concerti, e d’accordo con Cosimo Damiano D’Amato abbiamo deciso di cambiare il tipo di scrittura in funzione di un libro. Non c’erano i tempi per farne un docufilm, uno vero, non di quelli in cui ti racconti davanti a una telecamera e poi aggiungi immagini di repertorio.
C’è un passaggio su Pino Daniele, tuo vicino di casa…
Sì, per un lungo periodo. Abbiamo stretto un’amicizia importante che mi ha ulteriormente legato a questo personaggio, che è stato uno dei pochi riferimenti artistici italiani che avevo da adolescente. I momenti di jam session dopocena, con la chitarra in mano a cantare, le passeggiate in bicicletta… sono momenti andati. In tutti questi anni, quelli della mia generazione hanno assistito alla fine di un’epoca. Sono è solo Pino, è Bowie, sono i capisaldi.
Per finire. Il problema degli idoli del pop è che a un certo punto imbolsiscono, ti sembra che per tutta una vita hai comprato i dischi di un altro: come si arriva a 63 anni sembrando sempre quello di ‘Self Control’?
Premetto. Da ragazzo mi sono devastato. Smisi col calcio e da lì solo musica, pochi freni e molta…
… molta ‘sperimentazione’…
…sì, molta sperimentazione, e qualche santo mi ha sempre salvato. Intorno ai trent’anni ho cominciato a recuperare: sport, vita sana, mangiare il giusto, ma perché sentivo il bisogno farlo. Ora faccio meno sport di prima, ma forse è sempre quello, associato al vivere di musica, che mi mantiene giovane.
Stebrovetto
Raf