Un bel saggio ricostruisce la lunga e controversa storia dei monumenti Usa, facendo luce su un fenomeno spesso frainteso e strumentalizzato
“There is a crack in everything / That’s how the light gets in”. C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce. Lo cantava Leonard Cohen. Lo pensa anche Arnaldo Testi, che quella crepa è andata a cercarla nei monumenti di cui è disseminato il paesaggio americano, ora che la loro rimozione è saltata al centro del dibattito. Ne ‘I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti’ (Il Mulino), il già professore di Storia degli Stati Uniti all’Università di Pisa ci guida tra busti, statue equestri di gusto più o meno discutibile, presidenti scolpiti sulle montagne e altri memorabilia d’un passato che per dirla con William Faulkner – altro riferimento di Testi – non è morto, anzi, non è neppure passato. Lo sguardo lungo della storiografia si combina con uno stile elegantemente narrativo e marezzato d’ironia, anche in risposta alle polemiche che hanno accompagnato le cronache più recenti. Ne parliamo con l’autore.
Professor Testi, l’abbattimento di alcune statue e la ricollocazione di altre dalle piazze ai musei sono stati letti da molti, anche da questa parte dell’Atlantico, come un sintomo della cancel culture: la volontà di rimuovere la memoria d’un passato che non si condivide. Ma la funzione di un monumento è davvero quella di ricordare il passato?
Evidentemente no. Si tratta semmai di celebrarne alcuni aspetti, aspetti che chi eresse il monumento riteneva in quel momento rilevanti per affermare il proprio potere: non è memoria, semmai è celebrazione della memoria e memoria della celebrazione. La contestazione nasce da chi non si identifica con tale celebrazione, ad esempio gli afroamericani – ma non solo loro – davanti alle statue equestri del Generale Lee (che guidò le truppe della Confederazione durante la guerra civile, ndr). Ecco allora che spostare un monumento dalla piazza al museo non rappresenta solo un cambiamento di spazio, ma anche di significato, perché così si contestualizza criticamente la scelta di erigerlo e si elimina l’elemento emotivo e celebrativo. Non si tratta di cancel culture, anzi: è un modo per confrontarsi in modo diverso col passato, ad esempio ricordando che Lee non è il coraggioso gentiluomo del Sud sconfitto dal destino, bensì l’archetipo dell’uomo bianco che ha combattuto per difendere la schiavitù.
Eppure delle volte ci finisce in mezzo anche chi stava dall’altra parte, incluso il presidente Lincoln che la schiavitù l’abolì. Com’è possibile?
Se appare naturale l’abbattimento di statue che rappresentano un regime finito – pensiamo, oltre agli schiavisti confederati, a quel che accadde alle statue di Stalin –, è più sottile la critica a chi invece stava ‘dall’altra parte’. Nel caso di Lincoln, una sua statua è stata rimossa a Boston perché fornisce una lettura paternalistica della storia, con il presidente in piedi che impugna il proclama d’emancipazione, donando la libertà a uno schiavo nero seminudo e inginocchiato ai suoi piedi. Una rappresentazione gerarchica, connotata razzialmente e criticata già all’inaugurazione: uno degli oratori, l’ex schiavo e leader abolizionista Frederick Douglass, elogiò Lincoln, ma disse chiaramente che prima di morire avrebbe preferito vedere un afroamericano in piedi.
Abbattere una statua, però, è una ‘moda’ recente. O no?
In realtà il primo caso si registrò con la demolizione del monumento equestre a re Giorgio III a Manhattan nel 1776, cinque giorni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza: in quel caso il cambio di regime – il passaggio dalla subordinazione coloniale monarchica all’indipendenza repubblicana – travolse anche quel simbolo. Poi ci sono stati altri episodi, come la rimozione nel 1958 di un monumento a Colombo che si ergeva da un secolo davanti al Campidoglio di Washington, un’opera particolarmente insultante verso le popolazioni indigene. E le contestazioni ci sono sempre state. Possiamo però dire che negli ultimi decenni – anche prima delle proteste del 2020 per l’omicidio di George Floyd ad opera della polizia – c’è stata un’accelerazione, con risultati più visibili.
Perché proprio ora?
Perché siamo di fronte a una lunga fase di cambiamento di regime politico. Non un ‘rovesciamento’ puntuale come quello che investì la corona britannica o la Confederazione sudista, ma una mutazione che va consolidandosi da circa mezzo secolo, in cui minoranze e gruppi un tempo discriminati vanno conquistando un’influenza crescente: in un’America sempre meno bianca, trovano ad esempio ascolto le istanze delle minoranze etniche, delle donne e del movimento Lgbt. Questo si traduce anche nella contestazione di una monumentalistica che, come ha detto una femminista, fa sembrare le città cimiteri di vecchi maschi bianchi. Allo stesso tempo, sono emerse nuove statue e installazioni che vanno a includere donne e minoranze. In questo contesto, anche l’ascesa di Donald Trump – un esito, più che una causa della trasformazione del partito repubblicano – costituisce la reazione di una vecchia maggioranza bianca terrorizzata da questi cambiamenti.
Quanto è esteso il fenomeno degli abbattimenti, e come è vissuto dall’opinione pubblica?
Nonostante il risalto mediatico, i monumenti abbattuti – pochissimi – e quelli rimossi e musealizzati sono solo alcune centinaia su un totale di circa 50mila. Il fenomeno interessa soprattutto i generali sudisti e in seconda istanza Cristoforo Colombo, visto da alcuni come simbolo dello sterminio degli indigeni, ma anche ‘santo patrono’ degli immigrati, non solo italiani. Quanto all’opinione pubblica, chi è a favore dell’abbattimento costituisce una minoranza molto ristretta, anche tra gli afroamericani. Tuttavia, queste manifestazioni militanti hanno avuto un impatto ‘educativo’: sempre più persone sono favorevoli a maggiori contestualizzazioni ed eventuali musealizzazioni. Dunque anche i gesti più clamorosi paiono contribuire a una crescente consapevolezza collettiva.
È interessante notare come proprio il mutamento del contesto storico e della composizione sociale abbia talora fatto cambiare significato agli stessi monumenti: la Statua della libertà – un regalo che ad occhi parigini doveva celebrare la rivoluzione americana come costola di quella francese – divenne simbolo dell’accoglienza verso gli immigrati: “Datemi i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere”, recita la poesia di Emma Lazarus sul basamento, risalente al 1883. Poi, più semplicemente, Lady Liberty passò a essere percepita come icona globale del ‘secolo americano’. Storia simile per il Lincoln Memorial, a Washington.
Se erigere un monumento è una manifestazione di autorità e potere, ciò non toglie che i cambiamenti sociali e politici possano portare altri a impossessarsene e proiettarvi nuovi significati. Un po’ come diceva Massimo Troisi nel Postino, “la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”. L’enorme Lincoln Memorial fu inaugurato nel 1922 come tributo sì al grande emancipatore, ma soprattutto al fondatore di quel partito repubblicano che aveva dominato il Paese fino alla prima guerra mondiale e all’epoca accettava la segregazione a Washington, tanto che alla cerimonia d’inaugurazione i leader afroamericani furono piazzati in fondo, separati dagli altri, sotto il controllo dei marines. Eppure, già 17 anni dopo, la celebre contralto afroamericana Marian Anderson terrà un grande concerto lì, riappropriandosi del luogo, come succederà poi con la marcia per i diritti civili e il discorso ‘I Have a Dream’ di Martin Luther King, il 28 agosto di sessant’anni fa.
Ma le attuali contestazioni mettono in discussione solo certi monumenti, oppure attaccano la ragion d’essere della monumentalistica tout court?
Propendo per la prima ipotesi: i contestatori non sono iconoclasti, non rifiutano l’immagine celebrativa sempre e comunque, com’era semmai proprio di un certo radicalismo protestante delle origini. Qui si chiede di abbattere o spostare icone giudicate insultanti per erigerne altre, come quelle alle donne e agli afroamericani. Allo stesso tempo, da un punto di vista estetico alcuni vogliono superare la forma classica del monumento, la statua di marmo e bronzo che ci fa guardare verso l’alto: c’è chi parla di contromonumenti e antimonumenti, che però per ora rimangono circoscritti, in particolare ad alcune operazioni artistiche e all’occasionale valorizzazione del piedistallo liberato da una statua rimossa.
Il contromonumentalismo sollecita la commemorazione delle vittime invece che dei vincitori, con uno stile in netto contrasto con la consueta prosopopea neoclassica. Viene in mente il Memoriale dell’Olocausto a Berlino, ma uno dei primi esempi è il Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin, realizzato nel 1981: due pareti di pietra nera, con sopra scolpiti i nomi dei caduti, convergono a ‘v’ sprofondando nel National Mall di Washington, invece di innalzarsi come gli altri memoriali lì vicino. Visitarlo è un’esperienza toccante, come entrare in una ferita, eppure non mancarono le critiche: un lavoro antipatriottico, si disse all’epoca, per giunta concepito da un’architetta dal cognome troppo asiatico. Oggi, invece, proprio quel modello ritorna nelle ‘piscine riflettenti’ che commemorano il vuoto lasciato dalle Torri gemelle. Possiamo aspettarci un’età dell’oro del contromonumentalismo?
Per certi versi credo di sì, in ogni caso non penso che vedremo tanti nuovi monumenti equestri, se non in chiave ironica… Ma è appunto una storia che inizia già col lavoro di Maya Lin e poi si dirama lungo vari percorsi: le reflecting pools, ma anche i monumenti ‘orizzontali’, che raccontano una storia costruendo un percorso narrativo ad altezza di visitatore, con un approccio educativo che alcuni ritengono tuttavia non meno manipolatorio. Il Franklin Delano Roosevelt Memorial, inaugurato a Washington nel 1997, illustra ad esempio vari episodi della sua vita e raffigura il grande presidente in sedia a rotelle, dunque tutt’altro che a cavallo. Poi ci sono certe opere che nel Sud commemorano alcuni episodi-chiave della lotta per i diritti civili: in uno di questi (all’Ingram Park di Birmingham in Alabama, ndr) si passa tra muri da cui spuntano teste rabbiose di cani – come quelli usati dalla polizia razzista – dei quali si deve simbolicamente evitare il morso. Un altro modo per creare l’atmosfera emozionale che contribuisce al senso di un monumento in uno spazio pubblico.