Secondo l’esperta Klein, cresce il divario tra i ‘grandi’ editori e quelli più piccoli. Tra i rischi, conformismo e minore indipendenza. ‘Un disastro’.
Golia e Davide, elefanti e topolini. Da una parte Tamedia, Ringier, Ch Media, Tx Group e ovviamente la radiotelevisione pubblica (Srg/Ssr); dall’altra le piccole testate indipendenti, inclusa la nostra. Il panorama mediatico svizzero è spesso descritto in questo modo. Ma non staremo semplificando, magari per metterci comodamente dalla parte dei ‘buoni’? E quali sono le implicazioni economiche e politiche? Ne parliamo con Ursula Klein, editrice e caporedattrice del coraggioso Klein Report, testata imprescindibile per sapere tutto sulle testate confederate dal punto di vista editoriale, manageriale e finanziario.
Dove stanno andando i media svizzeri?
Più o meno, verso il disastro.
Ottimista. Come mai?
Negli ultimi anni il settore non ha conosciuto gli auspicabili adeguamenti strutturali: ci sono troppi prodotti mediatici, ma la quantità non garantisce sempre la qualità. In particolare soffriamo di una crescente uniformità dei contenuti, dei quali una fetta significativa è controllata dai grandi editori. Le faccio un esempio: la cosiddetta agenzia nazionale Ats/Keystone è controllata dall’Austria Presse Agentur (30%) e da Tx Group (20,56%), che insieme ne detengono la maggioranza. Poi vengono il gruppo Nzz (7,98%), Srg/Ssr (7%), Stampa Svizzera (6,84%). Il resto è posseduto da altri media e da privati. A sua volta, per risparmiare Ats (che poi ‘rifornisce’ le testate svizzere, ndr) riprende i contenuti di agenzie estere come la Deutsche Presseagentur. Nel frattempo, il resto del panorama mediatico si coagula in una serie di fusioni e acquisizioni. Risultato: gli stessi contenuti vengono replicati ovunque. Non dico che non sia giornalismo di qualità, ma è chiaro che aumenta la monotonia: a tutti tocca la stessa zuppa.
Rispetto all’Italia, però, possiamo vantare un buon numero di editori ‘puri’, invece di dipendere da industriali e finanzieri che usano le testate come arma politica ed economica.
Al momento, sì. Ma assistiamo a cambiamenti preoccupanti: Ringier, ad esempio, ha venduto il 25% delle azioni alla Mobiliare, un’assicurazione, sebbene non ami molto che se ne parli. Emergono dunque partecipazioni ‘ibride’, come pure una crescente pressione dall’estero, tramite colossi come la tedesca Axel Springer. È difficile dire se il lato ‘famigliare’ del settore resterà in piedi oppure se queste tendenze minacceranno l’indipendenza giornalistica. Se ne dovrebbe parlare più apertamente.
Come va al di fuori della Svizzera tedesca?
Molti media fanno un buon lavoro, ma per loro diventa sempre più difficile svolgerlo senza perdite. A volte intervengono a sostenerli delle fondazioni private – come nel caso di ‘Le Temps’ e del ‘Corriere del Ticino’ – e lavorano bene, ma è davvero lì che vogliamo arrivare? A una situazione in cui solo i ricchi possono fare gli editori?
Un problema enorme è la perdita di entrate pubblicitarie, ‘risucchiate’ da Google e dai social network.
D’accordo, ma non solo da loro: a privare di risorse gli editori più piccoli sono anche grandi gruppi ‘tradizionali’. In particolare Srg/Ssr e Goldbach, il braccio pubblicitario di Tx, agiscono come una sorta di duopolio, ma il governo non dice nulla perché gli fa comodo affidarsi a realtà mediatiche centralizzate. In questo momento c’è ancora abbastanza denaro in giro, ma viene spazzato via da pochi attori.
Il che ci porta alla questione del sostegno pubblico ai media. L’anno scorso gli elettori hanno bocciato un pacchetto di aiuti, con il fronte del ‘no’ a sostenere che le misure previste avrebbero aiutato in maniera sproporzionata i grandi editori. Che fare?
Secondo me si potrebbero creare strumenti di supporto indiretto: ad esempio, trasformare Ats/Keystone in una fondazione pubblica ben finanziata, che fornisca contenuti indipendenti a tutte le redazioni a prezzi accessibili. Molti editori, però, preferiscono sussidi diretti dal governo e puntano su quel supporto anche per tagliar fuori la concorrenza, nonostante un sistema del genere implichi una dipendenza dai capricci della politica: ecco perché sono scettica sui sussidi diretti e preferirei forme di partnership pubblico/privato.
Nell’informazione di qualità, un ruolo fondamentale lo gioca la radiotelevisione pubblica. Alcuni però pensano che riceva finanziamenti eccessivi e vorrebbero ridurre il canone a 200 franchi annui. Quali sarebbero le conseguenze?
Dobbiamo affrontare il fatto che Srg/Ssr è l’unico vero elefante nella stanza. Il suo potere di mercato è talmente grande da mettere in ombra tutti gli altri. Il voto per ridurre il canone non è il modo in cui mi piacerebbe affrontare il problema, ma il ridimensionamento potrebbe generare una competizione più corretta.
Per l’attenzione del pubblico?
Sì, ma anche per la pubblicità. Ora la situazione è iniqua. Si ricorda quando Srg/Ssr, Ringier e Swisscom cercarono di imporre la loro agenzia pubblicitaria unificata, Admeira? Fu il disastro del secolo. Anche se alla fine l’operazione – che rischiava di interferire sul funzionamento dei mercati – collassò, dal 2020 Ringier, un editore privato, è il solo proprietario di Admeira, che a sua volta vende gli spazi pubblicitari di Srg/Ssr: non sono una neoliberista, ma è facile immaginare le implicazioni di mercato per tutti gli altri. In termini di situazione regolatoria, è inaccettabile.
Però il rischio, con una Ssr rimpicciolita, è che altri e più spregiudicati giganti si mangino la torta. E poi ci sono Google e Facebook. Qualcuno vorrebbe che pagassero gli editori per i contenuti che gli ‘rubano’. Allo stesso tempo, i media dipendono da queste piattaforme per ottenere visibilità. È possibile costruire una relazione più equilibrata?
Sì, ma ci stiamo strozzando da soli. Il quartier generale di Google è a Zurigo: i politici la trovano una cosa molto sexy, oltre che una benedizione per le casse pubbliche. Parliamo di 5mila posti di lavoro ben retribuiti. Sicché non c’è una gran volontà di costringerli a dare qualcosa ai media. Peraltro di fronte a gruppi così grandi conta anzitutto l’applicazione di regole a livello europeo, ma temo che comunque la Svizzera cercherà di non applicarle, nonostante sia autolesionistico.
Ha fatto scandalo il sospetto che il braccio destro di Alain Berset passasse in anticipo al Blick informazioni sulle misure anti-Covid. Il caso si sta sgonfiando, ma ha generato un ampio dibattito sulle relazioni tra media e politica: siamo davvero cani da guardia – come ci piace credere – o piuttosto barboncini da compagnia?
A volte in Svizzera giornalisti e politici sono troppo vicini. Il famoso presentatore tv tedesco ‘HaJo’ Friedrichs diceva: “Siamo sempre con loro – coi politici – ma non apparteniamo alla stessa cerchia”. Invece troppo spesso quella linea viene oltrepassata. Non mi fraintenda: i media – anche quelli più grossi – fanno ancora un buon lavoro, ci sono molti esempi di inchieste eccellenti. Talora però – vuoi per pressioni dall’alto, vuoi per semplice pigrizia – qualcuno dimostra scarso coraggio.
Pressioni dovute anche alle risorse: licenziamenti, contratto di categoria scaduto da tempo, carichi di lavoro crescenti. Dobbiamo preoccuparci?
Beh, di certo c’è un problema. Ma sebbene la situazione dell’impiego sia decisamente preoccupante, le pressioni non vengono solo da lì. Il Klein Report si becca una o due querele al mese per le sue indagini. E poi sono anche gli stessi media che hanno comportamenti suicidi.
In che senso?
Ci sono troppe persone che vogliono fare gli editori e i giornalisti. Non capiscono cosa implichi, pensano che qualche anno in una redazione possa abbellire il loro curriculum per quando andranno a cercare un lavoro di pubbliche relazioni pagato di più. In un ambiente così affollato, per i più impegnati e meritevoli diventa difficile emergere.
In effetti, sempre più giornalisti corrono a farsi assumere dai politici e delle grandi imprese: l’equilibrio di ‘potere’ coi media si fa dunque asimmetrico.
Esatto. In particolare, i membri degli esecutivi locali e nazionali assumono sempre più collaboratori per influenzare la copertura mediatica che ricevono. Sono semplicemente troppi, è un disastro. L’Udc non è il mio partito, ma forse il capo del Datec Albert Rösti, non essendo statalista come Simonetta Sommaruga, potrebbe apportare qualche correttivo in questo senso. Potrebbe anche imporre maggiori controlli a Ssr/Srg, che attualmente non è neppure sottoposta allo stesso tipo di controllo finanziario di realtà come Swisscom e Posta. Ma stiamo parlando di un sistema enorme, che molti vorranno conservare così com’è.
Si chiama SwissMediaForum il principale evento per editori di testate d’informazione e addetti ai lavori. Quest’anno si tiene l’11 e il 12 maggio a Lucerna. Il suo fondatore Patrik Müller, caporedattore di Ch Media, ci spiega: «L’abbiamo creato nel 2011 per instaurare un dialogo tra media, politica e mondo delle comunicazioni, viste le loro molteplici intersezioni nell’era digitale, traendo anche spunto da altri settori e dal mondo accademico. Dodici anni dopo possiamo contare su un evento che attrae molte personalità importanti e si rivolge a un’ampia platea». Quest’anno, aggiunge Müller, «uno dei temi d’attualità – oggetto di un intervento di Luca Gambardella dell’Istituto Dalle Molle – sarà l’intelligenza artificiale: ChatGpt ha riscosso molte attenzioni e pone una sfida importante per noi giornalisti. Tra l’altro, il Ticino è molto ben rappresentato quest’anno». Oltre al prorettore Usi all’innovazione, infatti, saranno presenti il Ceo di Ubs Sergio Ermotti e quello della Posta Roberto Cirillo. Si parlerà anche di sostegno pubblico ai media, «anche se non vogliamo fare lobbysmo, ma piuttosto fungere da piattaforma aperta per una libera discussione su ogni opzione possibile», precisa Müller. «Oggi, una delle numerose questioni sul tavolo riguarda come fare in modo che i motori di ricerca e i social network paghino per l’enorme quantità di contenuti giornalistici creati da editori terzi», che poi sfruttano sulle proprie bacheche.
SwissMediaForum vede tra gli azionisti i ‘Big 5’ dell’editoria svizzera: Ch Media, Ringier, Nzz, Tx Group e Srg/Ssr, i cui capi siedono nel consiglio d’amministrazione. Anche Stampa Svizzera – l’associazione-ombrello degli editori – e altri privati rientrano nel gremio. I ‘cinque grandi’ sono protagonisti dell’Elefantenrunde, la tradizionale tavola rotonda che costituisce uno dei momenti più importanti in agenda. Segno che la manifestazione è tagliata su misura dei ricchi e potenti? Secondo Müller, no: SwissMediaForum «include sì i ‘Big 5’, ma invitiamo anche rappresentanti di realtà più piccole e indipendenti. Quest’anno, ad esempio, la caporedattrice del ‘Boten der Urschweiz’ Flurina Valsecchi ci parlerà della trasformazione digitale del suo giornale».
Klein non è d’accordo: oltre alla priorità data ai grandi editori, le scelte di programma «non rappresentano la Svizzera italiana e francese. Rappresentano semmai Zurigo, con la relativa eccezione di Srg/Ssr. Lo scopo del congresso pare essere quello di enfatizzare il potere percepito di questi editori – nonostante si tratti di piccole e medie imprese più che di veri e propri elefanti – attraverso uno spettacolo di pubbliche relazioni, cui invitano politici e altri potenti che possono tornare utili ai loro affari: il che è legittimo, ma ha preso una brutta piega man mano che i vari temi di discussione sono stati monopolizzati da questa claque escludendo tutti gli altri, ad esempio le donne e i piccoli editori».