laR+ IL COMMENTO

Lavorare: come e perché?

Non si è così avverata ‘La fine del lavoro’ profetizzata nel 1995 da Rifkin in un saggio dalle tonalità distopiche. Eppure il disagio è palpabile

In sintesi:
  • In tre decenni il tasso di persone occupate rispetto al potenziale degli attivi è solo
    leggermente sceso
  • Dal settore delle costruzioni, alla ristorazione, al settore sanitario fino a
    quello educativo le prospettive occupazionali sono oggi tutt’altro che cupe
(Keystone)
2 maggio 2023
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Non si è avverata ‘La fine del lavoro’ profetizzata nel 1995 da Jeremy Rifkin in un saggio dalle tonalità distopiche. La terza rivoluzione industriale, dopo quella da contorni dickensiani che svuotò le campagne nell’800 e quella delle catene di montaggio alla ‘Tempi moderni’ ideata a inizio '900 da Frederick Taylor, avrebbe dovuto cancellare gran parte del lavoro umano reso superfluo da computer e robot. Non l’ha dunque azzeccata l’economista americano, ma non è da escludere che sul più lungo periodo, per le incognite che presentano gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, il nostro rapporto con il lavoro subirà i previsti effetti sismici. Per il momento atteniamoci ai dati: in tre decenni il tasso di persone occupate rispetto al potenziale degli attivi è solo leggermente sceso, passando dal 64% al 59% su scala globale. In Europa si attesta attorno al 58%, in Svizzera al 67%. Smentita dunque la disoccupazione di massa paventata da Rifkin e da altri, tra cui Bill Joy, guru del gigante Sun Microsistem autore nel 2000 di una celebre analisi sulla rivista Wired dal titolo emblematico: ‘Perché il futuro non ha bisogno di noi’. In Europa la disoccupazione è scesa al 6%, in Svizzera al 4%, negli Usa al 3,5%. Non solo: in molti settori la questione più urgente sotto gli occhi di tutti non riguarda la mancanza di lavoro, ma il suo opposto, la carenza di manodopera. Dal settore delle costruzioni, alla ristorazione, al settore sanitario fino a quello educativo le prospettive occupazionali sono oggi tutt’altro che cupe. Eppure il disagio nel mondo del lavoro è palpabile. Come spiegarlo? Cercarne le ragioni impone un percorso mentale articolato in una sovrapposizione di fattori economici, sociali e culturali. Nell’ondata di manifestazioni in Francia contro la riforma delle pensioni, necessaria per salvaguardare il Welfare, entrano certamente in gioco pruriti demagogici di chiassosi politicanti ed eccessi di un sindacalismo in difficoltà di prevendita (la Francia è uno dei Paesi con il più basso tasso di sindacalizzazione). Ma non si può sottovalutare il genuino “ras-le-bol” per i bassi salari, le disuguaglianze sociali (esplose dagli anni 80) e le nuove forme di precariato create dalla globalizzazione dell’economia. La misura, per molti, è in effetti colma. La mondializzazione possiamo rappresentarcela come un liquido che scorre tra vasi comunicanti: l’avanzamento degli uni implica la regressione degli altri. Nel 1988 Maurice Allais aveva lanciato l’allarme: il libero scambio dovrebbe essere applicato unicamente in spazi equivalenti per economia, diritti sindacali e valori. Dunque, sentenziava il Nobel per l’Economia, aprire le frontiere alla Cina avrebbe comportato scombussolamenti sociali indebolendo i lavoratori, i loro diritti e i loro redditi. Ma vi è altro nel diffuso malessere. Ci riferiamo a quegli interrogativi che come fiumi carsici tornano regolarmente in superficie e che riguardano la ricerca di un senso. Il lavoro (lo pensava persino Karl Marx) può essere pensato come fattore di emancipazione, di crescita, di socializzazione. Un lavoro che non si riduca, come succede sempre più frequentemente, al suo aspetto monetario e mercantile, un lavoro che non ci ricordi solo la sua etimologia (dal latino “labor”, fatica o “travail” che deriva da “tripalium”, strumento di tortura). Ma che ci aiuti a star meglio, come individui e come società.