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R-esistiamo presidia il Centro d'asilo. Che ci apre le porte

Gli attivisti denunciano le condizioni di vita dei migranti: ‘Abbiamo le testimonianze’. La direzione della Sem li invita a un incontro per ‘dialogare’

La direttrice Micaela Crippa sabato ha incontrato i manifestanti
(Ti-Press/Pablo Gianinazzi)
24 aprile 2023
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Nell’aria volano le canzoni di De Gregori (Guccini e altri) per gente di “seconda mano”. Sotto cassa, infatti, non c’è il ‘solito’ pubblico. Nel primo pomeriggio di un sabato chiassese qualunque gli attivisti del Collettivo R-esistiamo hanno occupato uno spicchio del piazzale antistante la struttura di via Motta 1B del Centro federale d’asilo, a Chiasso. Sono circa una ventina, tra militanti storici e giovani, e cercano di farsi sentire nell’indifferenza della cittadina che sta altrove, sul Corso, dove hanno piantato le tende le cucine dello ‘street food’. Sugli striscioni stesi tutto attorno, lungo le recinzioni esterne che confinano con l’area ferroviaria, c’è un messaggio (plurilingue) per chi sta dentro, oltre il cancello, i richiedenti l’asilo. L’obiettivo, del resto, è quello di far capire loro che “non sono soli”, come si legge su un pezzo di cartone. «E non vengono lasciati soli». Sulla soglia dello stabile, l’ex Centro di registrazione e procedura per richiedenti l’asilo, oggi ‘appendice’ del complesso principale (seppur provvisorio) a Pasture (tra Balerna e Novazzano), compare la direttrice, Micaela Crippa. Varca senza remore quel cancello per incontrare i manifestanti e la loro portavoce. E per qualche istante le porte si aprono anche per noi. Giusto il tempo per dare modo all’obiettivo del fotografo di entrare e di catturare immagini e impressioni della quotidianità che scorre dentro quelle mura. L’invito della dirigente della Sem, la Segreteria di Stato della migrazione, è però diretto e rivolto al Collettivo: «Dialoghiamo». Micaela Crippa offre la disponibilità a incontrarsi e a prendere visione di «tutte le situazioni critiche, o presunte tali, che gli sono state segnalate», così da poter andare a fondo delle cose.

‘Abbiamo testimonianze fondate’

I due mondi, quello dentro e quello fuori, si toccano ma sembrano vivere due vite parallele. Il Collettivo, lascia intendere, e senza tanti giri di parole, di voler denunciare ciò che succede all’interno di quelle mura; di voler “smascherare – scandiscono al microfono – il falso volto dell’accoglienza, mostrandone la reale identità caratterizzata da repressione, sfruttamento e segregazione”. Le accuse mosse sono pesanti. «Abbiamo raccolto – ci dicono – varie testimonianze delle violenze e dei soprusi, ad opera in particolare del personale di sicurezza, che si consumano in via Motta, dove vengono messe le persone considerate pericolose per il solo fatto di arrivare dalle zone del Nordafrica». Di più al momento non si vuole dire «per paura del rischio di ritorsioni». Questa denuncia pubblica approderà anche sul tavolo delle autorità?, chiediamo. «La tutela delle vittime rende più difficile questo passo», ci rispondono. Una storia c’è, però, che può essere raccontata. «È quella – condividono – di un medico curdo arrivato dalla Turchia e alloggiato in via Motta – dove oggi si trova un centinaio di persone, ndr –. Dopo neanche tre settimane ci ha detto: “Io torno in Turchia, perché preferisco stare nelle prigioni turche, dove la mia prigionia ha una dignità politica, che non essere picchiato, sfruttato e non considerato in un campo come quello di Chiasso e in un Paese che si ritiene democratico”. Le sue parole sono state queste. Ed è tornato in Turchia». Al di là del cancello, nel frattempo, un gruppetto di giovani urla in arabo ai manifestanti la sua ‘verità’. Mentre un 19enne mostra la schiena, e racconta di essere stato colpito senza ragione. «In questo centro – gridano – i diritti umani non esistono. Ci è stato anche impedito di uscire».

‘Non abbiamo nulla da nascondere’

E qui la smentita arriva immediata e proprio dagli stessi vertici del Centro federale d’asilo. «Nessuno ha vietato agli ospiti di uscire dal centro», Micaela Crippa va dritta al punto. «Non abbiamo niente da nascondere», ci conferma quando la raggiungiamo. La direttrice delle strutture che per la Sem, la Segreteria di Stato della migrazione, sono il punto di riferimento per il Ticino e la Svizzera centrale, ha voluto sgombrare il campo, cercando al contempo il dialogo. «Per parlarsi – chiarisce, dopo essere stata presa anche a male parole – occorre però che entrambe le parti siano disposte ad ascoltare l’altra e ad allargare lo sguardo all’intera realtà dei richiedenti l’asilo, contestualizzando ciò che, a volte, accade dentro il Centro». Il Collettivo R-esistiamo contesta il fatto che la struttura di via Motta sia, di fatto, il luogo dove si rinchiudono gli elementi “pericolosi” perché provenienti da una determinata area geografica. «Non è assolutamente così – la direttrice rimanda l’accusa al mittente –. Nello stabile di Chiasso non sono alloggiati solo giovani nordafricani, ma anche famiglie (avete visto rientrare gruppi con i bambini e i loro palloncini di ritorno dal centro cittadino), ragazzi. Non si tratta di un centro per recalcitranti. Infatti, nessuno impedisce loro di uscire: il regolamento appeso all’interno parla chiaro sugli orari settimanali e del fine settimana, con la possibilità estesa dal venerdì alla domenica sera. Non dimentichiamo che siamo uno Stato di diritto».

Alla lente di Onu, Amnesty e Commissione

D’altro canto, il Centro federale d’asilo alla frontiera sud – come nelle altre sedi in Svizzera – ha gli occhi addosso, in particolare della Commissione nazionale per la prevenzione della tortura – negli ultimi anni più volte a Chiasso prima e Balerna poi –, dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e di Amnesty international. Enti che nel tempo non hanno mai risparmiato le critiche in un confronto dialettico quanto proficuo: «Siamo monitorati», ricorda la direttrice. Ed è a loro che anche i manifestanti si appellano, prendendo a manifesto l’ultimo rapporto annuale pubblicato da Amnesty il marzo scorso. Relazione che al capitolo ‘Diritti di rifugiati e migranti’ indica come “dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Svizzera ha adottato un regime di protezione temporanea simile a quello previsto dalla direttiva Ue. Il rapido sostegno fornito alle persone in fuga dall’Ucraina è stato in netto contrasto con le carenze nelle normative applicate ai richiedenti asilo di altre nazionalità, accolti con lo status di ammissione provvisoria. A causa dell’arrivo di profughi ucraini sono stati rinviati diversi progetti volti a migliorare le condizioni di vita nei centri federali d’asilo”. Adesso si attende anche il Rapporto conclusivo della Commissione nazionale per la prevenzione della tortura che ha visitato le sedi locali l’anno scorso.

‘I canali sono aperti’

All’interno del Centro, rivendica ancora dal canto suo la direttrice, si applicano le leggi con passione e impegno, assicurando l’assistenza ai richiedenti l’asilo sul piano medico, psicologico, così come attraverso il lavoro di pubblica utilità, le visite sul territorio e la scolarizzazione dei bambini, e assegnando a ciascuno un legale. «Tutti i canali di comunicazione, insomma, sono aperti», ribadisce. «All’interno del Centro – aggiunge – abbiamo anche una bucalettere alla quale affidare richieste e segnalazioni e potersi esprimere».

Certo, non ci si nasconde dietro a un dito: «I tafferugli capitano e non sempre sono di facile gestione, sullo sfondo – spiega Micaela Crippa – spesso ci sono infatti problemi di astinenza da stupefacenti o di abuso di alcol. Non sono comunque dettati da violenza generalizzata da parte del personale. È emerso anche dal Rapporto di inchiesta firmato dall’ex giudice federale Niklaus Oberholzer (incaricato dalla Sem di condurre un’inchiesta che restituisce alcune raccomandazioni in merito a miglioramenti nel settore della sicurezza, ndr). Spiace quindi che i manifestanti, oltre a parlare con quel gruppo di giovani, non abbiano ascoltato anche donne e nuclei familiari: si sarebbero sentiti dire che il problema, semmai, è rappresentato dalla procedura d’asilo e di Dublino».

Oltre il cancello

‘Nessuna tensione’

Non era previsto, né programmato. Poi, ecco il lasciapassare: possiamo entrare nel Centro. Occhi del giornale negli spazi di via Motta, quelli del fotografo di Ti-Press Pablo Gianinazzi, da anni sulle rotte dei migranti. «In fondo, quella rivolta alla direzione era una proposta al limite». Ma alla fine è stata accolta. Qual è stata la prima impressione?, domandiamo al nostro collega. «Nei minuti in cui ho scattato qualche immagine, direi di un luogo tutto sommato pulito. All’albo c’erano le attività giornaliere. In una delle due camere che ho visitato, sul lato riservato agli uomini, c’era un po’ più di disordine rispetto a quella che accoglie una delle famiglie, dove si vedeva la mano di una madre». Che clima si respirava nei corridoi? «Nel tempo che sono stato all’interno della struttura, incrociando i richiedenti, anche al fianco degli agenti di sicurezza, non ho notato sguardi di paura o rabbia. Sono stato in Serbia e lì sì che si percepiva della tensione».

La testimonianza

‘Viviamo un disagio’

A quanto pare si respira una realtà diversa poco distante, nel fabbricato accanto alla stazione ferroviaria di Chiasso, utilizzato come struttura di appoggio ai Centri federali d’asilo, che di questi tempi in Svizzera sono quasi al completo. Nell’edificio, che può accogliere fino a 240 persone, oggi se ne trovano poco meno di 200. Tra loro da qualche mese ci sono anche due giovani, una ragazza iraniana e un ragazzo curdo, entrambi in fuga dai loro Paesi e approdati a Chiasso. “The camp no good”, esordiscono quando li incontriamo. «È sporco, abbiamo visto topi e insetti». Stare lì non è semplice, soprattutto per una donna sola, ci fa capire la ragazza. «Tutti i giorni vi sono delle risse», ci dice dal canto suo il ragazzo. «Hanno picchiato anche me. E nessuno mi ha difeso». La convivenza forzata può diventare un problema a volte, in particolare quando la comunicazione è ardua. «Sentiamo di vivere un disagio psichico», ci racconta lei. Ancora di salvezza, annota con gratitudine, i medici e l’assistenza psicologica garantita dalle autorità.

Perché è agra la vita del migrante.