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Trent'anni di 'zio Silvio’ senza mai maturare

Cronaca (un po’ autoreferenziale) di com'è stato crescere nell’Italia del Caimano, che seppelliva la Prima Repubblica e vedeva spuntare la Seconda

In sintesi:
  • Lo shock dell’elezione di Berlusconi ci prese parecchio di sorpresa
  • Due note su quello che ne seguì
A un certo punto iniziò a sembrarci normale
(Keystone)
13 giugno 2023
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«Agli italiani gli piacciono le telenovelas, gli piacciono». Dei giorni successivi alla prima vittoria di Silvio Berlusconi – era la fine di marzo del 1994 e stavo per compiere tredici anni – queste parole di mio babbo sono le uniche che ricordo. Lui scuoteva la testa contrariato; mia mamma invece teneva lo sguardo fisso a terra, come qualcuno che ha perso qualcosa di molto prezioso. Magari sto romanzando, non so, ma mi pare che solo quella frase spezzasse con la puntualità d’un pendolo lo stupor vegetativo calato sulla mia famiglia, metà democristiana ‘sociale’, metà cattocomunista, traumatizzata come tante nell’allora rossissima Romagna. Parole che bastano a spiegare come io stesso, per anni, avrei guardato gli elettori di Forza Italia e della sua pittoresca coalizione, la Casa delle Libertà: diversi, alieni, pure un po’ mostruosi. Nel migliore dei casi, ignoranti come la ghiaia. Nel peggiore, ladri patentati. Perfino troppo italiani, visto che gli italiani, come diceva Francesco Cossiga, sono sempre gli altri. Si consolidava così – nel mio cuoricino preadolescenziale e nel più ampio corpaccione della sinistra postcomunista – quella spocchia che a un certo punto avrebbe stancato perfino noi stessi, artefatta e sussiegosa com’era.

Non so se quel primo trionfo sia stato davvero una sorpresa, dopo le tante che portarono prima alla gogna, poi negli avelli la Prima Repubblica. Non è che si partisse particolarmente avvantaggiati, a dirla tutta: per l’Alleanza dei Progressisti c’era Achille Occhetto, il curatore fallimentare del Partito comunista sotto le macerie del Muro di Berlino, un tizio tra il verdemuschio e il beige – di abito e di faccia – che pareva uscito dal bar Mocambo di Paolo Conte (“abbiamo comprato un tinello marron”). Comunque fummo colti talmente impreparati che pure negli anni successivi, al netto di Romano Prodi, non ci sarebbero state alternative molto serie, basti pensare a quell’insulso piacione da Cinecittà di Francesco Rutelli (“Abberluscò, ricordate degli amici!”, lo parodiava Corrado Guzzanti durante la campagna elettorale del 2001).

Stregatti e narcos

In quel 1994, il senso del salto in una nuova epoca fu vissuto dalla piccola borghesia progressista come un colpo di frusta collettivo, come quando ti fermi sulle strisce per far passare una tremula vecchietta – perché noi siamo i buoni, come no – e da dietro ti tampona un’enorme Mercedes: guardi lo specchietto e vedi il ghigno da Stregatto e i Ray-Ban da narcotrafficante di Cesare Previti, che rischiò di diventare ministro di Grazia e Giustizia. Era iniziato il bipolarismo, e ora lo sapevamo.

Fu presto la volta dell’antiberlusconismo militante, coltivato nell’acerba e presuntuosa ignoranza delle aule liceali: tirai un sospiro di sollievo quando il ruspante patron della Lega Umberto Bossi tradì “l’unto del Signore”, “il Gesù Cristo della politica” (Berlusconi si definiva proprio così) e ne fece cadere il primo esecutivo. Si aprì la parentesi del governo di Prodi, festeggiato in piazza con Cuore sottobraccio e le Nike ai piedi (rubo una frase a Olmo Cerri: “Se anche il capitalismo aveva già vinto, non lo sapevamo ancora”). Ma anche il pingue professore bolognese, con quei modi sornioni e quella faccia rotonda che parevano usciti da un album di famiglia, durò poco: tirai giù tutti i santi dal calendario quando il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti – cachemire, borsello, occhiali sulla fronte e toscano in bocca – lo sfiduciò pur di giocare ai francesi sulla settimana lavorativa da 35 ore. Mi feci pure infinocchiare dall’illusione che si potesse sconfiggere nelle aule di tribunale il ‘nemico’ che non si poteva battere alle urne, senza neanche sospettare che certi avvisi di garanzia fossero a orologeria, che le “toghe rosse” un po’ lo fossero davvero, che le manette non sono mai una soluzione. Poi si andava alle elezioni e si perdeva sempre, ma non era mai colpa della sinistra, erano il potere della televisione, la mancanza di senso civico, l’analfabetismo istituzionale, la corruzione dei costumi che aveva trasformato la piazza in Drive In... Un po’ era anche vero, ma non giustificava tutta quell’ostentazione di superiorità morale.

Culone e olgettine

Intanto il ‘berlusconismo’ dimostrava di essere arrivato per restare, dando peraltro vita a governi sempre più longevi. Sicché anche la sorpresa iniziale lasciò spazio a una certa consuetudine. Certo, si scendeva ancora in piazza quando Mister B. dava dei “coglioni” agli elettori altrui. Ma era come se qualcosa dell’indignazione iniziale si stesse spegnendo. In molti cominciarono a guardare in casa propria, infiammati dall’accusa di Nanni Moretti alla nomenklatura del centrosinistra: “Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”, Anno Domini 2002. Era la stagione dei girotondi, ma anche quelli stancarono piuttosto alla svelta.

Imperterrito, Berlusconi continuava a fare Berlusconi: un cazzaro catodico, geniale a modo suo, che riusciva a vendere la sua paccottiglia come rivoluzione liberale. Anche perché in Italia il liberalismo – per una serie di ragioni storiche che spaziano dal Vaticano a Botteghe Oscure – non sapevamo assolutamente come fosse fatto. Ecco allora quegli esecutivi in cui, come scrisse Edmondo Berselli, “istinti liberali si mescolano a velleità protezioniste o soi-disant colbertiane, tratti laicizzanti convivono con generose fidejussioni clericali”. Una chimera tutta supply-side, ma con cordate di allibratori per salvare la fallimentare Alitalia, “meno tasse per tutti” e spese pazze, bacchettate da Bruxelles e barzellette sconce. Il proverbiale “milione di posti di lavoro”, invece, non lo vedemmo mai.

Nel frattempo l’assuefazione proseguiva, tra olgettine e troike. Finché un giorno i quotidiani attribuirono al Caimano – soprannome nato dal titolo d’un film, peraltro bruttino, dello stesso Moretti – un epiteto rivolto alla cancelliera tedesca Angela Merkel: “Culona”. L’attribuzione si rivelò poi falsa, e sul ruolo dei media italiani nel far sembrare perfino Berlusconi più credibile di loro si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Ma intanto era successo quel che non sarebbe mai dovuto succedere: tra amici ci scappò un sorrisetto divertito. Come si ride di una cosa vergognosa certo, ma intanto era scappata, quella risatina imbecille e vanzinizzata. Lì per lì non ce ne accorgemmo, poi ce ne pentimmo amaramente, però ecco: Berlusconi era diventato una cosa normale.

Travagli e ombelichi

“Capita così / che un bel giorno ti guardi allo specchio / e ti trovi più vecchio”, Brunori Sas docet. Com’era potuto succedere? Forse c’entrava la scoperta del liberalismo quello vero, che non era il ‘tarocco’ della Casa delle Libertà, ma ai miei occhi metteva in crisi anche il corporativismo nostalgico della vecchia sinistra. Oppure, più semplicemente, cominciavo come tanti altri a stufarmi della saccenza giustizialista di Marco Travaglio, del morettismo come vezzo sociale, di Sabina Guzzanti che invece di far ridere come il fratello si calava nella parte della perseguitata, dell’ennesima paginata di Repubblica in cui Eugenio Scalfari parlava con Marx, Dio e Freud come se fossero amici suoi al circolo del bridge. Non ne potevo più neppure del compiacimento iperprovinciale col quale certuni salutavano le mazzate all’Italia, non di rado un po’ superficiali e snob, della stampa straniera (in particolare l’Ecommunist, come venne ribattezzata ad Arcore la Bibbia a puntate del capitalismo globale). O forse è solo che a un certo punto cresci. Non è che diventi migliore, ma cambi.

Cambiava anche il panorama politico, d’altronde, anche se ‘zio Silvio’ avrebbe sempre trovato un posticino in quel variegato diorama. A ‘sinistra’ (tra mille virgolette) avanzava l’orda grillina. A destra (senza virgolette) al posto di Bossi e Gianfranco Fini spuntò prima Matteo Salvini, poi Giorgia Meloni. (A proposito: una volta, saremo stati in quinta ginnasio, un amico rivisitò un vecchio slogan scrivendo sul banco “fuori i compagni dalle galere, dentro Fini e le camicie nere”. Non so cosa scriveremmo ora, ma so che da oltre vent’anni vorrei scusarmi con la bidella). La parabola di Berlusconi era entrata nella sua fase discendente, dopo che il commissariamento europeo aveva posto fine alla stagione da líder máximo: ci trovammo al bivio tra l’Ue e lui, e grazie al cielo prevalse l’Ue.

Pullman e bidet

Ultimamente, anno dopo anno, la normalizzazione di Berlusconi è sublimata così in una sorta di tenerezza. Vederlo biascicare su TikTok, raccontare a Bruno Vespa di quella volta che regalò a Gheddafi un bastimento di bidet, sentirlo promettere ai calciatori del suo Monza “un pullman di troie”: tutte cose che non provocavano più l’indignazione d’un tempo, foss’anche solo per esaustione. Semmai ci s’imbarazzava per lui, come davanti a un vecchio pianista da night club un po’ ubriaco; al massimo si filosofeggiava su un suo presunto dadaismo (vedrete che anche oggi molti lo ricorderanno più o meno ironicamente come grande artista). Mister B. era diventato lo zio improbabile, il pensionato che al posto della “lampadina fioca da trenta candele” si era sempre fatto illuminare il cerone dai riflettori delle televisioni, tra le soubrette e il prosciutto Rovagnati. Un testardo omino arancione che odorava più di camerini che di semolino, dal passato tanto equivoco quanto affascinante. La sua insopportabile spavalderia era stata ridotta dall’età a una cialtroneria un po’ patetica, forse, ma tremendamente umana.

Obama e Pierino

Però, sia chiaro: Berlusconi è stato uno dei principali artefici d’una clamorosa caduta di muso dell’Italia e della sua democrazia. Restano incancellabili l’improvvisazione al potere, il sesquipedale conflitto d’interessi, la riduzione della politica internazionale a film di Pierino (le corna nelle foto con gli altri leader, l’Obama “bello e abbronzato”, cose così). Le sue coalizioni hanno portato sui banchi del parlamento personaggi rabelaisiani, destinati a far germogliare – in quanto semi essi stessi, ma anche per indignazione reattiva – le erbacce del populismo di oggi. A quasi trent’anni dalla sua proverbiale “discesa in campo”, però, non riesco a riservargli lo stesso disgusto che ci si può concedere quando si è giovinastri. Un po’ per spossatezza, un po’ perché de mortuis nihil nisi bonum. Ma anche perché ora l’Italia è alle prese con una generazione di rogne ben più giovani e pimpanti, dunque più pericolose, mentre la sinistra inciampa sempre negli stessi errori adolescenziali.