Il giurista Henry Peter solleva dubbi sui bilanci di Credit Suisse e suggerisce alcune opzioni per scongiurare una crisi del nuovo colosso finanziario
Tra tira-e-molla, mugugni e recriminazioni, certi matrimoni somigliano piuttosto a dei divorzi. Nel caso della repentina unione tra Ubs e Credit Suisse, poi, alcuni testimoni di nozze scuotono la testa: si contestano le dimensioni della nuova megabanca, la natura dell’intervento pubblico messo in piedi sul finire della settimana scorsa, il comportamento del management e delle autorità di controllo, il mancato rispetto di azionisti e risparmiatori. D’altra parte il matrimonio “s’ha da fare”, pena conseguenze molto più gravi, sicché occorre ragionare a mente fredda su quanto è accaduto e potrebbe accadere. A farlo ci aiuta la lucidità di Henry Peter, professore di Diritto societario e finanziario all’Università di Ginevra, forte di una lunga esperienza accademica e professionale che si estende anche al campo delle fusioni e acquisizioni.
Professor Peter, il Consiglio federale ha di fatto esautorato gli azionisti e messo da parte la regolamentazione sulla concorrenza, impugnando il diritto d’urgenza regolato dall’articolo 185 della Costituzione federale. È lo stesso ‘attivato’ per la pandemia e vi si legge che l’esecutivo “può emanare ordinanze e decisioni per far fronte a gravi turbamenti, esistenti o imminenti, dell’ordine pubblico o della sicurezza interna o esterna”. Però i problemi del Credit Suisse si conoscevano da parecchio tempo: eravamo davvero alle prese con un’emergenza? Oppure, come osserva l’esperto di diritto penale Marcel Niggli, assistiamo a “un attentato allo Stato di diritto” degno di “una repubblica delle banane”?
Non è così, attenzione a non fare confusione. Il Consiglio federale è intervenuto in una situazione di urgenza estrema, credo che nessuno che conosca anche minimamente i mercati finanziari lo negherebbe. Si rischiava la sparizione improvvisa di una grande banca, con una destabilizzazione disastrosa per l’intero sistema e per il Paese. In questo contesto, quanto fatto non costituisce un attentato allo Stato di diritto, ma piuttosto un’inevitabile deroga al diritto ordinario. Una deroga resa peraltro possibile dal diritto stesso, appunto come nel caso del Covid. Certo, è necessario che le eccezioni non diventino la regola, ma non è questo il caso. Magari si sarebbe potuto intervenire prima evitando questa situazione d’urgenza e potendo dunque restare nel solco del diritto ordinario, ma data la situazione nella quale ci si è ritrovati alla fine della settimana scorsa, certe condanne mi paiono infondate.
Più in generale, come pensa che sia stata gestita questa prima fase dell’unione tra Ubs e Credit Suisse?
Se ripercorriamo la sequenza degli eventi e il loro precipitare, vediamo che il Consiglio federale si è trovato con poco tempo da perdere e con in mano due opzioni. La prima era la nazionalizzazione, legalmente possibile, ma subito esclusa perché contraria a certi principi svizzeri e perché la Confederazione non è equipaggiata per gestire una banca. La seconda – e a quel punto unica – soluzione era rivolgersi al solo attore che potesse salvare Credit Suisse: la riluttante Ubs, che ha acquistato la banca dopo una trattativa tesa e anche grazie alle garanzie dell’esecutivo federale e della Banca nazionale svizzera. Non mi pare che si potesse gestire il tutto in modo molto diverso.
Quali sono i principali ostacoli ancora da superare?
È chiaro che si tratta di un’operazione complicata, che richiederà una pesante ristrutturazione e, purtroppo, dei licenziamenti, anche se senza un salvataggio le conseguenze per l’impiego sarebbero state ben peggiori. Ma c’è un’altra sfida importantissima e assai delicata: se già Ubs e Credit Suisse erano banche d’importanza sistemica, ora si sta creando un’entità bancaria ‘supersistemica’, di una dimensione molto problematica in ogni caso rispetto alla dimensione e alle risorse della Svizzera.
È dunque verosimile che la Commissione della concorrenza e il Consiglio federale decidano d’imporre – o almeno agevolare – uno ‘spezzatino’ della banca, per evitare posizioni monopolistiche?
In questa situazione d’emergenza, più ancora che un problema di concorrenza dovuto alle conseguenze che discendono dalla presenza di un attore ultradominante sulla piazza finanziaria, abbiamo un problema di rischio sistemico: nessuno dubita che l’Ubs sia una banca molto solida, che non creerà problemi a breve e medio termine, ma a lungo termine può capitare di tutto. Compito della Finma (l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, ndr), ma soprattutto del governo svizzero, sarà – come detto – evitare che la dimensione della banca sia eccessiva rispetto all’economia svizzera. Parliamo di una banca il cui bilancio supera ampiamente il prodotto interno lordo elvetico: se già salvare il Credit Suisse ha richiesto misure senza precedenti – si pensi ai 200 miliardi di liquidità garantiti in prestito dalla Bns e ai 9 miliardi concessi come garanzia sulle perdite –, le cifre necessarie per un salvataggio della nuova entità potrebbero ammontare a quattro o cinque volte tanto. Occorre pertanto ridurre questa concentrazione di rischi.
Ma come?
Per ora si può solo lavorare su delle ipotesi. La prima cosa da notare è che dopo la crisi del 2008 – quando lo Stato svizzero ha dovuto salvare l’Ubs – si sono introdotte regole destinate a evitare di ritrovarsi in simili situazioni, quindi a evitare il possibile dissesto di banche considerate quali ‘too big to fail’. L’episodio vissuto la scorsa settimana ha mostrato che, contrariamente a quello che si pensava, queste regole si sono rivelate inefficienti, o comunque insufficienti. Occorre quindi trovarne altre.
Ad esempio?
Una prima possibilità è imporre che la nuova banca non abbia un’attività nell’investment banking, o comunque che ce l’abbia in una misura limitata. È un proposito difficile da attuare, ma possibile: gli Usa lo avevano fatto anni fa, anche se poi sono tornati sui loro passi. Una seconda possibilità è imporre la cessione di una parte delle attività, un’operazione che peraltro andrebbe anche a risolvere, almeno in parte, le preoccupazioni legate al diritto della concorrenza; così facendo la nuova entità sarebbe infatti ridimensionata. Concretamente, una volta stabilizzata la situazione e a ristrutturazione avvenuta ad opera di Ubs, tutto o parte dell’attuale Credito Svizzero potrebbe essere ceduto, anche tramite quotazione in Borsa. Pochi anni fa il Credit Suisse aveva pensato di quotare la sua attività svizzera, per poi rinunciare a farlo, secondo me a torto.
Da più parti si chiede anche di potenziare le riserve di capitale proprio che garantiscono solidità a un istituto di credito.
Sì, però questa esigenza è già stata soddisfatta dopo la crisi dei subprime nel 2008, con regole, in Svizzera, addirittura più incisive di quelle di altri Paesi. Quindi non sono convinto che da questo punto di vista le esigenze vadano rafforzate; forse il problema non è il livello dei fondi propri richiesti, ma la loro reale esistenza.
In che senso?
Una domanda da porsi è se il Credit Suisse avesse realmente i fondi propri che affermava di avere.
Se così non fosse, sarebbe grave.
Come fa a ipotizzarlo?
Intanto, osservo che l’Ubs ha accettato di rilevare Credit Suisse solo dopo la cancellazione di 16 miliardi di debiti –i famosi CoCo bonds, cioè obbligazioni convertibili –, ma anche e forse soprattutto dopo che la Confederazione ha assicurato la copertura fino a 9 miliardi di franchi delle perdite che potevano emergere su certe operazioni del Credit Suisse, quindi perdite che non risultavano dal bilancio della banca stessa. Questo spinge a interrogarsi sulla reale affidabilità del bilancio del Credit Suisse, ovvero sull’ipotesi che vi fossero più debiti (anche solo potenziali), quindi per definizione meno fondi propri, e che dunque la cosiddetta ratio di fondi propri richiesta non fosse al livello cui il mercato pensava che fosse. A farmi propendere per questa ipotesi è anche il fatto che gli stessi revisori della banca sembrano aver certificato il bilancio 2022 con riserva o comunque con commenti proprio circa queste tematiche, cosa rarissima che dunque suona come un serio campanello d’allarme. Pertanto un’altra misura da prendere per il futuro potrebbe essere volta ad assicurare una migliore contabilizzazione e di conseguenza un migliore controllo sul reale rispetto dei parametri già previsti, prima di pensare a inasprirli.
Sta dicendo che il Consiglio d’amministrazione e la Finma hanno dormito?
I giornalisti adorano le affermazioni radicali, ma occorre ragionare in modo più equilibrato. La Finma non controlla direttamente le banche, lo fa prioritariamente tramite i revisori. Nel caso del Credit Suisse sembra che i revisori abbiano svolto il loro lavoro esprimendo le suddette riserve, almeno circa i conti a fine 2022. Il problema, semmai, è che quanto scoperto probabilmente già nel corso del 2022 avrebbe dovuto indurre a prendere misure anticipate. Lo stesso vale per il Consiglio d’amministrazione, che aveva presentato lo scorso ottobre un buon programma di risanamento, le cui tempistiche erano tuttavia lunghe, probabilmente troppo lunghe nel caso in cui – come poi avvenuto – vi fosse stato un problema sui mercati finanziari internazionali. La reazione del Credit Suisse al riguardo, per rimediare a problemi già noti un anno fa, è peraltro stata giudicata dalla fine dell’estate scorsa troppo lenta dagli osservatori e dai mercati. Col senno di poi, vediamo che quel programma non ha tenuto in conto la necessità di agire più rapidamente, in modo da evitare che bastasse il collasso di un paio di banche non particolarmente grandi negli Usa per generare un contagio devastante.
Ora molti politici chiedono qualche testa, invocando commissioni parlamentari d’inchiesta e un’azione incisiva sui bonus del management. Ma è davvero possibile, oppure si tratta solo di proclami per mostrarsi più forti di quanto non si sia stati in precedenza?
Premetto che molti rappresentanti politici avevano verosimilmente poca influenza sul problema, per cui non gli si possono imputare responsabilità non loro. Poi, certo, una certa dose di opportunismo è inerente alla politica, che in questo caso spinge a mostrare i muscoli e profilarsi come difensori dei lavoratori, degli azionisti, perfino dei titolari di CoCo bonds, e questo a maggior ragione in un periodo pre-elettorale. Ciò detto, è giusto che si chieda di chiarire cause e responsabilità, onde evitare per quanto possibile che una crisi del genere si ripeta. Oltre al dibattito sulle contromisure da adottare, è ragionevole pure auspicare sanzioni tra le quali la cancellazione dei bonus: una possibilità prevista dalla legge, sebbene mai applicata in precedenza. Non parliamo qui dei bonus dei dipendenti, ma di quelli riconosciuti a organi quali la direzione generale, che avrebbe ancora diritto a emolumenti per la non brillante attività passata.
Ci saranno anche strascichi legali?
È da prevedere che vi siano azioni legali almeno a livello civile contro chi ha gestito la banca. Il problema in questi casi, come in quello delle commissioni d’inchiesta, è stabilire chi siano i reali responsabili, perché non si possono imputare alla direzione attuale di Credit Suisse errori commessi dai predecessori. Abbiamo già visto quanto sia difficile identificare le responsabilità collettive e individuali nel caso del fallimento di Swissair, quando tali responsabilità erano molto più definite, eppure nessuno, dopo anni di processi, è stato condannato.