Per la giornalista Paola Peduzzi l’uscita dall’Ue si poteva giocare meglio. Quanto a un rientro, faranno prima a tornare insieme i fratelli Gallagher
"Rischiamo di non ricevere la posta e compriamo cose da società che falliscono prima ancora di riuscire a spedircele. I nostri malati muoiono in casa, per le strade, nelle ambulanze in coda, sulle lettighe nei corridoi degli ospedali (…). Non riusciamo a prendere un treno, a ottenere un passaporto, i moduli per le tasse, un atto di proprietà, le scartoffie per l’import e l’export. Non riusciamo neppure ad avere carote che non paiano avere una disfunzione erettile e che non siano marce (…). Siamo un enorme memento mori. Anzi, no. Siamo un memento stultitiae". La scrittrice A.L. Kennedy descrive con rabbia – in un recente intervento sulla Wochenzeitung – la disastrosa situazione nella quale parrebbe versare il Regno Unito tre anni dopo la Brexit.
Lo sfogo d’una letterata, certo. Ma i dati economici sono anch’essi poco rassicuranti: il Pil è passato da quasi il 90% di quello tedesco a poco più del 70% nel 2021, col concomitante crollo della sterlina (-20%) e degli export in Ue (idem); le famiglie Brit sono più povere di quelle tedesche e francesi per circa 10mila franchi annui, con una perdita di altri mille ogni anno; interi settori si trovano senza quella manodopera, soprattutto stagionale, che di solito veniva dall’estero; si registrano la mancanza di beni di vario tipo e una produttività in calo costante. Nel 2023, la Gran Bretagna potrebbe essere l’unico Paese europeo in vera recessione. Facciamo il punto con Paola Peduzzi: è vicedirettrice del Foglio – per il quale insieme a Micol Flammini cura la rubrica ‘EuPorn – Il lato sexy dell’Europa’, divenuta anche un podcast –, studia e ama l’Unione europea, ma anche la Gran Bretagna.
Cosa sta succedendo?
Il Regno Unito sta vivendo un momento molto difficile dal punto di vista economico e sociale, aggravato dalla Brexit, ma inserito in realtà in una crisi che secondo molti economisti è cominciata dieci, quindici anni fa. Naturalmente il contesto mondiale – prima il Covid, ora la guerra in Ucraina – non aiuta. Si verificano scioperi come non se ne erano mai visti negli ultimi vent’anni da parte di moltissime categorie, in particolare nel settore sanitario, messo enormemente alla prova dalla pandemia. Soffrono parecchio anche settori come quello agroalimentare, mentre il sistema scolastico sconta le grandi disuguaglianze tra scuole d’élite e non, come capita d’altronde anche altrove.
Un grave declino, insomma.
Spesso si tende a parlare di declino e a cavalcarne la rappresentazione, presentandolo come inevitabile per un Paese che avendo scelto la Brexit è ormai condannato. Questa narrazione non mi appartiene: ritengo che la scelta di lasciare l’Ue sia stata sbagliata, sono contenta che abbia fallito come possibile esempio per i sovranismi continentali, ma credo anche che si sarebbe pur potuta gestire con conseguenze meno gravi.
In che senso?
Sono convinta che il problema non stia tanto nella Brexit in sé, che pure trovo qualcosa di spericolato, quanto soprattutto nella decisione di impostare il negoziato solo ed esclusivamente sull’ostilità ideologica nei confronti dell’Ue. Una scelta che ha esacerbato gli animi ed è equivalsa a tirarsi la zappa sui piedi, considerata la centralità del mercato europeo per l’economia britannica. Il ‘Brexit means Brexit’ che si è voluto ciecamente imporre e inseguire non significa niente – niente – se non la volontà di assecondare certi slogan popolari.
Come col chiodo quando si stacca dal muro con tutto quel che sorregge, è difficile isolare il ruolo preciso della Brexit in questa crisi rispetto agli altri fattori, in primis guerra in Ucraina e Covid-19.
Molti studi però provano a farlo. Non si arriva quasi mai a conclusioni nette, ma si ritiene che la Brexit abbia generato almeno un 3% d’inflazione (ora sopra al 10%, ndr) e anche nel partito conservatore è ormai convinzione diffusa che essa non abbia creato i vantaggi attesi.
A proposito del partito al governo, in questi anni stupiva parecchio vedere personaggi come Boris Johnson, rampolli delle migliori scuole e dei club più esclusivi, cercare non solo di fomentare, ma addirittura di scimmiottare l’Inghilterra più umile: il ‘white van man’ – l’uomo col furgoncino bianco, stereotipo caricaturale della piccola borghesia artigianale –, la popolazione reietta e calpestata dalla deindustrializzazione prima e dalla globalizzazione poi. Cos’hanno ottenuto?
Il genuino euroscetticismo dei conservatori – che non possiamo attribuire a ragioni di opportunismo del momento – è stato estremizzato sul modello di Nigel Farage (leader dello United Kingdom Independence Party e poi del Brexit Party, ndr), avvolgendo la Brexit in fantasie populiste invece di gestire la questione in modo più pragmatico e attento ai reali interessi del Paese. Questo ha comportato alla fine una sanzione politica: se un tempo la Brexit era qualcosa di bipartisan – anche moltissime circoscrizioni storicamente laburiste votarono a favore –, ora il rimpianto ormai maggioritario identifica nei Tory la responsabilità per non aver fatto funzionare l’uscita. La sbornia populista di leader altrimenti cosmopoliti come Boris Johnson ha sfasciato così non solo la Brexit, ma anche il Regno Unito.
Ora è il turno di Rishi Sunak. Per alcuni, è una figura incoraggiante: molto pacato, è anche il primo premier di origine indiana, segno che il Regno Unito fa finalmente i conti con la sua natura multietnica e con il riscatto delle minoranze. Per altri, è uno specchietto per le allodole: è comunque ricchissimo; come la segretaria dell’Interno Suella Braverman – quella che definisce un suo "sogno" e "ossessione" vedere aerei carichi di profughi decollare per il Ruanda – discende da quelle famiglie indiane mandate in Africa orientale a fare da casta intermedia, paraimperialista e più vicina agli inglesi che ai popoli sottomessi. Cosa possiamo aspettarci da lui?
Un po’ di ragionevolezza, dopo i fallimenti macroscopici di Johnson e Liz Truss. Il partito conservatore ha divorato con istinto cannibale i suoi leader a una velocità impressionante, finendo per affidarsi a Truss che pure presentava già alle primarie (alle quali sconfisse Sunak, ndr) tutti i sintomi del disastro a venire: era l’unica – anche tra gli economisti della sua area – a sostenere la soluzione iperliberista di far ripartire l’economia con i tagli alle tasse. Ai dibattiti, Sunak la guardava come fosse un’aliena. Truss ci ha messo solo 45 giorni per andare a sbattere e creare un disastro d’immagine per il Paese, più ancora che un danno a livello economico e finanziario. Ora proprio Sunak deve gestire, come hanno detto in tanti, l’hangover (postumi da sbornia, ndr). Di certo si tratta di un prodotto delle élite: la storia della diversità all’interno del partito conservatore fa un po’ ridere, visto che anche chi appartiene a minoranze si situa con pochissime eccezioni nella classe medio-alta. Non credo che siano le radici indiane del premier a cambiare i termini della ‘lotta di classe’ in Gran Bretagna. Brexiter della prima ora, sposato con una miliardaria, Sunak tenterà semmai, a fatica, di mettere un po’ d’ordine.
Dall’adesione ritardata alle impuntate di Margaret Thatcher ("Rivogliamo indietro i nostri soldi!", esclamò una volta in faccia agli altri leader europei), il rapporto di Londra con Bruxelles è sempre stato quello dell’ospite che si fa desiderare, arriva tardi alla festa e poi pretende pure di cambiare la musica. Anche per questo, ora in Europa sono in molti a godere della sua disfatta, col rischio di allontanare ancora di più le due sponde della Manica. Lei ha paragonato la sua speranza di un rientro nell’Ue a quella che si riuniscano gli Oasis. Ovvero?
Direi che se tornano insieme i fratelli Gallagher, possiamo sperare di rivedere insieme anche Ue e Regno Unito. Dopotutto il tasso di litigiosità è quello... Certo che sarebbe una cosa davvero clamorosa. Anche perché, scherzi a parte, bisogna ricordare che Londra ha sempre goduto di una condizione privilegiata nell’Unione: riceveva moltissimi fondi, restava fuori dall’euro, con il premier David Cameron aveva ottenuto ulteriori autonomie, e quindi era ben riparata dalla ‘deep integration’, l’integrazione troppo stretta che fa drizzare i capelli in testa agli inglesi. Dopo tutte queste concessioni, chi come me non avrebbe mai voluto perdere un partner così importante si chiedeva: "E perché mai dovrebbero uscire?" La vittoria dell’idea di isolamento e di affermazione neoimperiale ha dunque esacerbato gli animi, con moltissimi europei che ora pensano: data la litigiosità interna all’Ue, è quasi meglio che non ci siano anche gli inglesi. Quanto a Londra, anche i Labour ritengono che in caso di vittoria alle prossime elezioni (previste tra un paio d’anni, ndr) il loro compito sia quello di far funzionare il divorzio, non di annullarlo. Penso d’altronde che se tra un paio anni chiedessimo agli inglesi di rientrare, ci direbbero di no.