Una nuova enciclopedia del pensiero post-keynesiano offre analisi e ricette alternative a quelle liberiste. Intervista al curatore Sergio Rossi
Dagli ‘animal spirits’, le pulsioni ferine che macchiano d’irrazionalità i comportamenti economici, ai ‘subprime’, i mutui-spazzatura all’origine della crisi finanziaria di quindici anni fa. Passando per ‘Bretton Woods’, sede della famosa conferenza che nel secondo dopoguerra gettò le basi del regime monetario internazionale, e il ‘Cambridge circus’, cenacolo intellettuale che avrebbe fornito per decenni la rotta alle politiche economiche di mezzo mondo. Le trecento voci della Elgar Encyclopedia of Post-Keynesian Economics – appena curata dal canadese Louis-Philippe Rochon (Laurentian University) e dallo svizzero Sergio Rossi (Università di Friburgo) – costituiscono altrettante tessere per comporre l’immagine del post-keynesianismo, ‘fronda’ accademica attiva e vivace che si contrappone ai dettami dell’economia neoclassica e neoliberista. Un lavoro monumentale che accoglie il contributo dei maggiori esponenti di questo approccio, di cui parliamo proprio con Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria.
Cominciamo dalle basi: che cos’è il post-keynesianismo, e in cosa si differenzia dal pensiero di John Maynard Keynes e dei suoi sodali di prima generazione?
Partiamo dal keynesianismo originario, quell’approccio che vede Stato e mercato non come antagonisti, ma come aventi ciascuno un ruolo fondamentale da svolgere nell’economia. Keynes – un liberale non liberista, dunque né un socialista né tantomeno un comunista – ritiene che lo Stato debba intervenire nell’economia, in modo da sostenere ove necessario la domanda nel mercato dei prodotti e l’occupazione, i quali – a differenza di quanto creduto dagli economisti neoclassici – spesso stentano a trovare un equilibrio sostenibile tramite le forze del libero mercato. Mentre il pensiero neoclassico è evoluto verso il neoliberismo, il post-keynesianismo cerca di attualizzare l’analisi macroeconomica di Keynes alla luce di grandi cambiamenti più recenti quali la finanziarizzazione, la deregolamentazione e la globalizzazione.
Lo stesso Keynes, morto nel 1946, metteva in guardia circa il fatto che fossero economisti ormai sepolti a influenzare la politica. Però la crisi del 2008 e quella legata alla pandemia hanno spinto molti governi a rispolverare un certo interventismo economico, mettendo da parte il credo del meno Stato e dell’austerity. Possiamo dire, come da vecchio adagio attribuito a Nixon, che ‘ora siamo tutti keynesiani’?
Non proprio. È vero che queste crisi hanno spinto i governi a riscoprire il ruolo essenziale della finanza pubblica. Tuttavia, sono bastati i primi segnali di ripresa per tornare all’austerità: basta vedere le misure draconiane che l’Europa ha imposto alla Grecia dopo il 2008. Nel frattempo il ruolo di sostegno pubblico si è spostato sulle banche centrali, indipendenti dai governi ma succubi della finanza globalizzata, tanto che hanno sì inondato di liquidità i mercati, ma privilegiando appunto quelli finanziari, obbedendo alla logica del ‘too big to fail’. Forti della loro posizione dominante e al netto della cosmesi contabile, le banche hanno così continuato a giocare al casinò, generando bolle e speculazioni, privatizzando i profitti e socializzando le perdite. Per cui, sebbene il keynesianismo abbia avuto qualche fugace momento di ‘gloria’, l’economia reale è rimasta soggetta a un approccio essenzialmente neoliberista.
A proposito di banche centrali: c’è chi chiama in causa le loro iniezioni di liquidità come responsabili dell’attuale inflazione.
È un errore prospettico?
Il notevole rincaro nel mercato dei prodotti dovuto ai problemi nelle catene di produzione mondiali, alla pandemia e alla guerra non può essere imputato alle banche centrali. Già il liberista Milton Friedman notava che ci vogliono due o tre anni perché l’aumento della massa monetaria si rifletta sui prezzi al consumo.
Se guardiamo i dati dal 2008 in poi, vediamo appunto che l’iniezione di liquidità ha riguardato principalmente i mercati finanziari, quelli sì caratterizzati da un’inflazione degli asset (peraltro sempre nascosta, al pari di quella immobiliare, come polvere sotto al tappeto). Energia, cibo, carburanti denotano un rincaro dovuto a difficoltà strutturali, non alle scelte delle banche centrali. Anzi, alzare i tassi d’interesse di riferimento, nella speranza di raffreddare l’inflazione, potrebbe causare un ulteriore aumento dei prezzi al consumo, perché le imprese dovranno pagare più interessi per i loro prestiti che infine scaricheranno sui consumatori. Eppure questa è la direzione intrapresa.
Ancora una volta, se è vero che in relazione a Keynes si è parlato di ‘Ritorno del Maestro’ – il titolo di un libro di Robert Skidelsky – e di ‘momento Hyman Minsky’, con riferimento a uno studioso post-keynesiano americano, il boccino delle politiche economiche è rimasto in mano a ben altre scuole di pensiero.
Scuole di pensiero che però stentano a prevedere le crisi, spesso descrivendole come qualcosa di esogeno al sistema economico, ‘cigni neri’ volati da chissà dove. Quello post-keynesiano appare invece un pensiero della fragilità, che si concentra sulle contraddizioni intrinseche al sistema economico, sui ‘difetti di costruzione’ che portano talora il mercato a inciampare nei suoi stessi piedi. Uno studioso come Roberto Bellofiore è arrivato a sostenere che perfino quella pandemica è stata una crisi generata dal sistema economico. In che senso?
Possiamo dire che tutte le crisi – finanziaria, sanitaria, geopolitica – sono di carattere endogeno al sistema capitalista, reso instabile dalla ricerca del massimo profitto a discapito del bene comune, della coesione sociale, della difesa della salute. Lo stesso vale per la crisi climatica, agevolata dal dogma del "chi inquina paga" – con la costante compravendita di certificati per proseguire con le emissioni di CO2 – invece della regola di "non inquinare", prospettiva possibile solo incentivando il reinvestimento dei profitti in modelli produttivi più sostenibili. La mercificazione dell’ambiente, come quella della salute, genera poi tali crisi. Occorre dunque guardare a una soluzione post-capitalista orientata al bene comune, in cui il sistema economico soddisfi i bisogni delle persone e non viceversa.
Post-capitalismo, contraddizioni endogene… Possiamo dire che al keynesianismo classico, più liberale, si sia sostituita una visione molto vicina a quella marxista? Ricordo che il presidente del Plr ticinese Alessandro Speziali, dopo una sua intervista qui su ‘laRegione’, la tacciò addirittura di ‘socialismo accademico’.
Non è così. Occorre non confondere gli studi marxiani con l’ideologia marxista. Il Marx economista, che dice che il lavoro non dovrebbe essere una merce e che viene sottopagato per incamerarne il plusvalore nelle aziende, mette in luce asimmetrie tra capitalisti e lavoratori che sono certamente rilevanti anche per i post-keynesiani. È comune a Keynes e Marx anche l’idea che la disoccupazione non si possa risolvere sempre con la magia del mercato e vuoti appelli alla voglia di lavorare – magari spostando il disoccupato in capo al mondo per fargli ‘incontrare’ un posto libero –, ma sostenendo la domanda nel mercato dei prodotti per evitare crisi di sovrapproduzione e sottoconsumo. Il post-keynesiano Michal Kalecki, rifugiato polacco che fece parte del ‘Cambridge circus’, partì dall’osservazione che i lavoratori spendono nel mercato dei prodotti quel che guadagnano nel mercato del lavoro: sia Marx sia Keynes notano, da prospettive differenti, lo squilibrio che si può creare in questo circuito tra salari e consumi, con lacune che solo lo Stato può colmare. Ma questo, ancora una volta, non implica per i post-keynesiani una visione volta ad annullare completamente le dinamiche di mercato, come vuole l’ideologia marxista.
La ‘modern money theory’ americana – con economisti quali la statunitense Stephanie Kelton, vicina a Bernie Sanders – va nella vostra stessa direzione?
La teoria della moneta moderna sostiene appunto che Stato e banca centrale siano come marito e moglie in una famiglia, con lo Stato che deve spendere dove e quando serve e la Fed che deve finanziarlo acquistando i titoli di debito del tesoro pubblico sul mercato primario, dove lo Stato li emette: una cosa vietata per legge in Svizzera e comunque esclusa dall’ideologia dominante alla Bns. Eppure l’indebitamento per finanziare la spesa pubblica va a beneficio del settore privato, sostenendo i consumi e dunque le imprese: è proprio il paradosso messo in evidenza dai post-keynesiani, per cui il debito pubblico genera profitti aziendali. L’importante è sostenerne il circolo virtuoso garantendo un buon gettito fiscale, con una tassazione fortemente progressiva specie per quella ricchezza generata senza merito o in modo insostenibile. Si tratta di una prospettiva che si può cogliere solo se si guarda all’"economia come un tutto", secondo un’altra celebre definizione di Keynes, e non come a una miriade di singoli individui perché "la società non esiste", com’ebbe invece a dire Margaret Thatcher.
In ‘Age of Fracture’, lo storico progressista Daniel T. Rodgers notava tra il serio e il faceto che il disastro cominciò quando nei manuali la sezione di microeconomia arrivò a precedere quella di macroeconomia…
In effetti, quella che manca alla teoria neoliberista è una visione d’insieme delle relazioni, delle istituzioni e dei comportamenti che danno sostanza alla realtà economica. Il suo approccio esaspera la responsabilità individuale – sempre che non si tratti di esigerla dai grandi interessi privati – ma finisce per studiare le singole cellule senza vedere il corpo nel suo insieme. I post-keynesiani cercano di rovesciare i termini sul piano analitico e delle scelte di politica economica.
Il loro approccio – al netto di tutte le differenze tra singoli autori – si basa su una constatazione apparentemente controintuitiva: a differenza del ‘buon padre di famiglia’, nei momenti di difficoltà lo Stato non deve tirare la cinghia, anzi, deve spendere e investire di più. Il problema è che certi aiuti pubblici, una volta che ci si fa l’abitudine, sono difficili da tagliare in tempi di crescita economica senza pagare un prezzo alle urne. E per dirla con Thatcher ‘i soldi degli altri prima o poi finiscono’: fu il debito pubblico fuori controllo – insieme all’inflazione – a dare forza al neoliberismo a partire dagli anni Settanta-Ottanta. Qual è la ricetta per evitare gli eccessi?
Il keynesianismo è declinato con le crisi petrolifere degli anni Settanta e la stagflazione, che costrinsero gli Stati ad aumentare gli aiuti finanziari, finendo essi stessi per essere colpevolizzati dai liberisti in ragione del maggiore indebitamento pubblico. Eppure già Keynes notava come nei momenti di crescita economica sia opportuno riequilibrare la spesa pubblica, recuperando risorse tramite le imposte, proprio come il buon padre di famiglia risparmia quando può, per spendere quando deve: cosa che i neoliberisti rifiutano, perseguendo tagli fiscali continui ed esacerbando così quello stesso indebitamento.
Sgravi fiscali e austerità, spesso due facce della stessa medaglia, paiono piuttosto popolari anche in Ticino: pensiamo alla decisione di raggiungere il pareggio del conto economico cantonale entro il 2025. Cosa si rischia?
Si tratta di una scelta meramente contabile, da foglio di calcolo Excel, in cui invece di preoccuparsi di quel che bisogna spendere per garantire servizi e stabilità sociale e adeguare di conseguenza il gettito fiscale, si invertono i fattori e ci si preoccupa anzitutto di tagliare le imposte, restringendo così le possibilità di spesa dello Stato. Keynes suggeriva di avere una finanza pubblica anticiclica: col decreto Morisoli si è scelto l’opposto, pretendendo di risparmiare in una fase economica di stagnazione e di crisi.