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Pareggio dei conti, ‘così andiamo a sbattere’

Dure critiche dell’economista Sergio Rossi all’iniziativa approvata dal Gran Consiglio. ‘Ripetiamo ciclicamente la stessa terapia fallimentare’

(UNIFR)
21 ottobre 2021
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Raggiungere il pareggio del conto economico cantonale entro il 2025, agendo prioritariamente – seppur non ‘esclusivamente’ come voleva l’Udc – sul contenimento della spesa pubblica, evitando nuove tasse. È quanto deciso martedì dal Gran Consiglio, con una maggioranza che ha unito Plr, Lega e la stessa Udc. Il dibattito, naturalmente, è stato acceso: c’è chi ha parlato dell’importanza di non accumulare debiti pubblici per la sostenibilità intergenerazionale dello Stato, chi ha paventato un parziale smantellamento del welfare e chi infine ha fatto notare che forse si tratta solo di parole al vento, visto che poi si tratterà di decidere volta per volta quali spese tagliare, eventualmente arrivando anche ai referendum. Chiaramente preoccupato dalle cronache è l’economista Sergio Rossi, professore di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo, osservatore di lungo corso del ruolo dello Stato in economia.

Professor Rossi, si dice sempre che lo Stato dovrebbe comportarsi come un buon padre di famiglia, stringendo la cinghia in tempi grami. L’iniziativa parlamentare appena approvata non va forse in questo senso?

Intanto, occorrerebbe capire chi sia un buon padre di famiglia: dubito che lo si possa definire come colui che in un momento di difficoltà, pur di non indebitarsi, priva la sua famiglia di uno standard di vita e di prospettive adeguate. A maggior ragione lo Stato – che ha certamente le spalle più larghe – non può rinunciare a fornire alla popolazione quei servizi tanto più necessari in tempi di crisi. Inoltre, gli investimenti pubblici servono a sostenere il benessere e i consumi di tutti, per cui un risparmio pubblico immotivato può avere conseguenze che non si limitano a un singolo ‘focolare’. Certe decisioni politiche rischiano di limitare la possibilità di garantire tutta una serie di ammortizzatori e servizi, frenando anche gli investimenti dei quali proprio la crisi legata alla pandemia ha fatto vedere la necessità e l’urgenza, dal campo della salute a quello dell’aiuto alle persone che hanno i redditi più bassi.

A dire il vero il deputato Udc Sergio Morisoli, promotore dell’iniziativa, sottolinea che non si tratta di tagliare la spesa pubblica, ma solo di rallentarne la crescita. E c’è chi nota che comunque le singole misure di risparmio saranno sottoposte a dura battaglia parlamentare, per cui non è il caso di fasciarsi la testa prima di rompersela.

Certo, ma siamo alla tattica del salame per far passare l’ennesima di una serie di iniziative mirate a ridurre il ruolo e le capacità finanziarie del servizio pubblico. Anche il lessico utilizzato fa parte di quella narrazione: ‘contenimento’ della spesa e ‘sgravi’ fiscali (quelli proposti dal Plr per i più ricchi, ndr) invece di ‘tagli’, ad esempio. Così si indora la pillola, specie con la campagna elettorale per le elezioni cantonali alle porte, ma ciò che si difende sono pur sempre delle politiche contrarie alla necessità di superare le difficoltà.

In effetti la combinazione dei tagli di imposta e della riduzione di spesa è un po’ l’elefante (di Lakoff) nella stanza. Però anche John Maynard Keynes sosteneva che nel lungo periodo ci si deve liberare dall’indebitamento pubblico che invece può essere utile a breve termine, altrimenti si entra in un circolo vizioso. Non le pare giusto?

Ma bisogna uscirne attraverso un piano di sviluppo economico sostenibile. Qui invece assistiamo a un circolo vizioso inverso. Dai tempi di Marina Masoni applichiamo a cicli ripetuti la stessa terapia che si è già rivelata fallimentare: riduciamo le imposte attendendoci maggiori introiti fiscali grazie allo stimolo che questo dovrebbe fornire all’economia; quegli introiti non arrivano, perché spesso le imprese distribuiscono sotto forma di dividendi o riversano sul mercato finanziario internazionale quanto risparmiato in imposte, e lo stesso fanno i cittadini più facoltosi, invece di investire sul territorio e sostenere l’indotto e i consumi; di conseguenza ci troviamo di fronte a un disavanzo nei conti pubblici causato dai tagli alle imposte che suggeriamo di risolvere riducendo nella stessa misura la spesa pubblica, come se il problema fosse che si spende troppo e non che si incassa troppo poco a causa di scelte politiche improvvide fatte in precedenza. E così si ripete l’errore di partenza in una spirale verso il basso. La colpa intanto viene sempre affibbiata a cause esogene: la congiuntura, la libera circolazione, la pandemia… A forza di ripetere lo stesso approccio, lo Stato – in Ticino come a livello federale – si trova a dover svendere e privatizzare le sue attività più redditizie rimanendo solo con quei servizi fondamentali sì, ma necessariamente in perdita. E il debito pubblico aumenta ulteriormente.

D’accordo, però in un calderone enorme come la spesa pubblica ci sono parecchi sprechi, o no?

Certo, non sono rare le voci su funzionari che magari si dichiarano in missione mentre sono a seguire il cantiere di casa propria o a giocare a tennis, ed è altrettanto chiaro che alcuni uffici possono essere gestiti in modo più efficiente ed efficace. Nessuno sta dicendo che i soldi pubblici si debbano sprecare come se non finissero mai. Però non si può neanche generalizzare, demonizzando l’intera macchina dell’amministrazione e del servizio pubblico come se fosse un covo di nullafacenti pur di giustificare tagli orizzontali e drastici, che alla fine investono il cittadino comune quando deve affrontare una realtà fatta di meno aiuti, meno servizi, meno letti in terapia intensiva.

Magari è lo stesso cittadino che sposa la retorica dei ‘fuchi’ da punire e quindi sostiene il contenimento della spesa pubblica: colpisce come l’Udc riesca a difendere un’agenda potentemente ‘menostatista’, eppure peschi voti proprio tra le fasce più fragili della popolazione.

L’Udc riesce ad affiancare un’agenda neoliberista in campo economico con un forte discorso di protezione dal presunto nemico straniero. Si tratta di una contraddizione che non risolve i problemi sociali, ma in questo è favorita dalla sinistra, che oltre alle infatuazioni per politiche più ‘blairiane’ sconta la sua incapacità di parlare ai lavoratori. Questo vale anche per temi scottanti come la libera circolazione, che non va abbandonata ma pone oggettivamente dei problemi, anche se un’economia sostenibile non può risolverli demonizzando i frontalieri e perorando un protezionismo inefficiente, quanto piuttosto spingendo per regole e contrattazioni che richiamino gli imprenditori alle loro responsabilità.

Proprio l’attrazione di imprese fa parte del ragionamento di chi, magari chiudendo un occhio sulle condizioni offerte ai lavoratori, conta su di esse per aumentare il gettito fiscale e quindi finanziare la spesa pubblica senza ricorrere a nuove imposte. Cosa potrebbe mai andare storto?

Il fatto che si arriva a una società nella quale alcuni lavoratori ricevono stipendi vietnamiti, pur di tenere sul territorio imprese che offendono la dignità dei lavoratori e dovrebbero sparire. Così facendo non si creano neppure incentivi per imprese più responsabili e a maggiore valore aggiunto.

Negli Stati Uniti l’amministrazione del presidente Joe Biden stanzia 4mila miliardi di investimenti pubblici, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aziona un ‘cannone’ di spesa pubblica senza precedenti, segnando un distanziamento epocale dall’austerity perseguita perfino dopo la crisi finanziaria dello scorso decennio. E la Svizzera?

La Svizzera – non solo il Ticino ovviamente – resta ancorata alle politiche di stampo thatcheriano e reaganiano, all’idea che un mix di riduzione dei compiti dello Stato, privatizzazioni, risparmi e politiche fiscali a favore delle grandi imprese generi ricchezza destinata a ‘sgocciolare’ su tutta la popolazione. Si tratta di una posizione anacronistica e smentita dai fatti, eppure la si difende ancora, invece di impegnarsi in seri programmi di investimento pubblico anticiclico per assicurare la tenuta dell’intero sistema socioeconomico.

Un altro liberalismo è possibile?

È possibile e doveroso. Lo stesso Keynes era un liberale. Lo scopo di avere uno Stato solido non significa ‘sovietizzare’ tutto, come vorrebbe una certa retorica, ma consentire anche alle imprese nel settore privato di essere forti, solide e sostenibili. Un liberalismo che riconosca la necessità di poggiare su entrambe le gambe, ossia pubblico e privato, a differenza del liberismo, non è certo un’eresia se guardiamo alla storia e all’analisi economica.

Per finire, che quadro dipinge per un 2025 ‘austero’ come – almeno a parole – lo vorrebbe la maggioranza del Gran Consiglio?

Intanto va detto che l’esito della votazione, con 45 favorevoli e 39 contrari, indica che anche all’interno del legislativo ci sarà ancora resistenza alla tendenza maggioritaria. In caso contrario si preannuncia un quadro a tinte fosche, che francamente mi fa venire qualche brivido lungo la schiena. Si continua a insistere con un approccio che impoverendo lo Stato finisce per impoverire e indebolire anche le famiglie e le piccole imprese. Questo spinge anche a una maggiore riottosità sociale e all’incedere dei populismi che la strumentalizzano. Andando avanti così rischiamo insomma di andare a sbattere contro un muro.

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