laR+ reportage dal myanmar

La guerra nascosta a due anni dal golpe

Le vittime degli scontri tra i ribelli e i soldati curate in centri clandestini. Non si può nemmeno studiare, le scuole sono prese di mira dai militari

Un Paese in fiamme (Keystone)

«Stavo andando a raccogliere il riso, quando all’improvviso una mina è saltata», racconta Ma Noi, una donna di trent’anni rimasta senza una gamba. «Spero di riuscire a mettermi una protesi, ma in ogni caso la mia vita non sarà più come prima. Dovrò abituarmi a convivere così», aggiunge mentre abbraccia disperata la sua piccola bambina. Siamo in un centro di riabilitazione segreto nella municipalità di Demoso, nello Stato Karenni (o Kayah), nell’Est del Myanmar, dove vengono continuamente curate le vittime di un conflitto sconosciuto.

La situazione nel Paese si è infuocata dopo il golpe del primo febbraio 2021, quando le forze armate birmane guidate dal generale Min Aung Hlaing sono salite al potere con un colpo di Stato. Hanno arrestato Aung San Suu Kyi – ex consigliera di Stato e premio Nobel per la pace nel 1991 – e molti altri esponenti di spicco della League for Democracy (Nld) – il partito vincitore delle elezioni del novembre 2020 –, spazzando via quella giovane democrazia nata poco più di un decennio fa e portando il Paese in una vera e propria guerra civile.

La popolazione, nonostante la sanguinosa repressione dell’esercito, è prima scesa in strada pacificamente e poi ha iniziato una resistenza armata senza precedenti, che vede uniti gli eserciti etnici e il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo clandestino che si è costituito dopo il golpe.

Tre su quattro via di casa

Oggi, a due anni di distanza, il conflitto divampa in tutto il Paese. Nello Stato Karenni, una etnia composta da circa 360mila persone, in maggioranza di fede cattolica, la popolazione sta pagando un prezzo altissimo. Le città, che come in tutto il Myanmar si stavano aprendo al turismo e alla modernità, sono state quasi del tutto abbandonate, infestate di ordigni esplosivi dall’esercito birmano, mentre i civili sono costantemente sotto attacco dell’artiglieria della giunta e circa il 75 per della popolazione è stata costretta ad abbandonare le proprie abitazioni.

L’unico modo per documentare il loro dramma, in una delle regioni più attive nel combattere il Tatmadaw – l’esercito birmano –, è farlo illegalmente. La giunta al potere, infatti, non permette ai giornalisti e alle organizzazioni umanitarie di entrare in Myanmar. Non ci sono strade e per arrivare all’interno bisogna camminare per quattro giorni nella fitta boscaglia della foresta, marciare su piccoli sentieri improvvisati su e giù per le montagne, seguire impervi corsi d’acqua e infine attraversare l’imponente fiume Salween.


Un seguace di Aung San Suu Kyi urla la sua rabbia (Keystone)

«Ci siamo quasi, questo è l’ultimo giorno di cammino e poi saremo arrivati», dice Ooreh, un comandante del Karenni Army (Ka) sulla quarantina d’anni, che ci accompagna durante il viaggio. Man mano che ci avviciniamo, si iniziano a sentire esplosioni sempre più forti. «Sono i colpi di mortaio da 120mm che sparano in continuazione contro i nostri villaggi», spiega.

Siamo dentro

Dopo aver attraversato l’ennesimo fiumiciattolo con una piccola barca di legno, ad aspettarci c’è il comandante Ridu, responsabile della zona del Karenni Nationalities Defence Force (Kndf), un gruppo armato composto da circa 5mila uomini nato recentemente e sotto il controllo del Ka.

Con alcuni pick-up percorriamo il primo tratto di strada sterrata, di una terra color rosso sangue, come quello che stanno versando i Karenni per conquistare la loro libertà e quella di tutto il popolo del Myanmar. Poi l’asfalto e le prime costruzioni di case in cemento. Siamo dentro, all’interno del Paese, nel cuore dello Stato Kayah.

Piove incessantemente al funerale di Twuemua, 45 anni, volontario del battaglione locale del Pdf, rimasto senza vita a causa delle schegge di un mortaio birmano che non gli ha lasciato scampo. I volti della mamma e della moglie sono fissi su quella bara che presto verrà sotterrata, insieme ad altre migliaia di persone che sono morte in questi due anni. «La vittoria sarà nostra, combatteremo per la libertà, per i nostri caduti e per il futuro dei nostri figli», giurano i combattenti prima di dare l’ultimo saluto militare al loro compagno d’armi.

«Ogni giorno veniamo attaccati dal Tatmadaw. E ogni giorno siamo costretti a seppellire qualche fratello. Ma niente ci può fermare. Il nostro obiettivo è chiaro, vogliamo costruire uno Stato federale e vivere in pace dopo aver sconfitto la dittatura», aggiunge Dee De, il numero uno del Kndf.


Civili al riparo in un tempio buddista (Keystone)

Pesanti combattimenti si registrano anche negli Stati Karen, Kachin, Shan e Arakan, dove da oltre settant’anni le guerriglie etniche combattono per l’autonomia. Subito dopo il colpo di Stato hanno dato rifugio ai dissidenti, li hanno addestrati e hanno incrementato le operazioni militari contro la giunta.

«Scontri quotidiani sono in atto anche nella provincia di Sagaing, ad appena venti chilometri da Mandalay, la seconda città più grande del Paese», precisa Khu Htebu, Ministro dell’interno del Nug e membro del comitato centrale del Karenni National Progressive Party (Knpp). Quest’area è stata colpita più volte dai bombardamenti dell’aviazione birmana, che molte volte ha centrato civili innocenti, proprio per l’inaspettata resistenza armata della popolazione. Nel settembre scorso, un elicottero ha aperto il fuoco contro una scuola nel villaggio Let Yet Kone, uccidendo 13 persone, tra cui 7 bambini.

Numeri impressionanti

Fino a ora, secondo le stime del governo clandestino, si contano oltre 11mila morti in tutto il Paese, decine di migliaia di feriti e più di un milione di sfollati interni, costretti a vivere in condizioni disastrose, con serie difficoltà a reperire cibo, acqua e medicinali. Per l’Unicef, più di 5 milioni di minori hanno bisogno di assistenza umanitaria e 7,8 milioni di adolescenti non hanno istruzione. L’economia del Paese è al collasso, con un tasso di disoccupazione pari al 40 per cento della popolazione

«Sono scappata dal mio villaggio alla fine del 2021, quando l’esercito birmano ha ucciso 31 civili nella municipalità di Pruso», racconta una giovane donna, responsabile di un campo profughi, che per ragioni di sicurezza vuole rimanere anonima. Si riferisce a quello che viene ricordato come il Massacro di Natale, avvenuto il 24 dicembre, dove sono stati ritrovati i corpi di 31 persone carbonizzate dopo un assalto del Tatmadaw. «Viviamo giorno per giorno. È tutto difficile. Non possiamo lavorare nei campi, non ci sono ospedali nella zona e abbiamo paura di poter essere attaccati in qualsiasi momento. Abbiamo davvero bisogno dell’aiuto della comunità internazionale», aggiunge.

Ma oltre qualche sanzione e richiamo, le grandi potenze mondiali non hanno fatto granché per il Myanmar. La prima risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è arrivata solo alla conclusione del 2022. Nel documento si chiede al generale Min Aung Hlaing di liberare tutti i prigionieri politici, inclusa la deposta consigliera di Stato Suu Kyi, e si sollecita alla fine delle violenze. Nonostante questo, però, pochi giorni dopo, la Suu Kyi è stata condannata ad altri 7 anni di carcere. L’ulteriore pena, in aggiunta alle precedenti, la condanna di fatto al fine pena mai.

Banchi e bunker

È mattina e in una piccola scuola vicino a Demoso, alcuni bambini stanno facendo lezione. Sembra tutto normale, ma all’improvviso suona l’allarme e di corsa si rifugiano tutti in un bunker artigianale scavato sotto terra. «Per fortuna oggi è un’esercitazione», spiega Naw Ruthar Sharmar, preside dell’istituto che ospita 370 studenti dai 5 ai 18 anni. «Da quando ho iniziato a insegnare qui, i militari birmani hanno attaccato questa zona tre volte con dei grandi mortai. Per questo motivo siamo sempre pronti a scappare e a nasconderci nel rifugio. Anche se sappiamo che è pericoloso, non vogliamo chiudere la scuola. L’istruzione è il futuro dei nostri figli e del nostro popolo».

Sebbene la situazione nel Paese sia davvero drammatica, la giunta birmana ha annunciato che nuove elezioni si svolgeranno nell’agosto 2023. «L’annuncio di queste elezioni sono esclusivamente per una legittimazione internazionale», spiega Khu Htebu. «Non è possibile farle. Siamo in guerra e se non riceveremo aiuti dall’esterno, purtroppo, questo conflitto durerà ancora per molti anni».


Barricate in attesa della polizia a Yangon (Keystone)