Processo farsa per corruzione contro la ex leader birmana. La attendono altri dieci dibattimenti con accuse simili
Cinque anni di prigionia che si aggiungono ai sei di precedenti condanne, e che saranno seguiti da chissà quanti altri: Aung San Suu Kyi è stata giudicata oggi colpevole di corruzione, nell’ultimo episodio di una farsesca odissea giudiziaria iniziata dopo il colpo di stato che la rimosse dal potere nel febbraio 2021. L’obiettivo della giunta militare di eliminare politicamente la leader amata dalla popolazione è ormai evidente. E visto il cumulo di processi all’orizzonte, con reazioni internazionali ormai sopite, è anche chiaro che la strategia sta funzionando.
Suu Kyi (76 anni) è stata condannata per corruzione per aver accettato una tangente di 600mila dollari e oltre 11 chili d’oro da un alto funzionario che in passato era un suo fedelissimo e che poi è diventato il suo accusatore. Come tutti i procedimenti penali che la coinvolgono, il processo si è svolto a porte chiuse, e i pochi partecipanti sono tenuti a non divulgare informazioni. Suu Kyi ha definito l’accusa "assurda", ma dovrà prepararsi a rispondere ad altri dieci processi per corruzione, che insieme agli altri capi di imputazione potrebbero costarle una pena totale di circa 190 anni. L’ex leader di fatto del governo per cinque anni è già stata condannata per aver sobillato la popolazione, violato le norme di emergenza per il coronavirus, e importato illegalmente alcuni walkie talkie.
Nessuno l’ha vista in pubblico dal giorno del golpe, e i militari non hanno mai rivelato dove la tengono prigioniera. La giunta militare, che insiste nel sostenere che Suu Kyi sta ricevendo un giusto processo da tribunali indipendenti, ha di fatto eliminato dalla scena la sua nemesi, colpevole di fatto di averli oscurati nella "transizione verso la democrazia" come i generali l’avevano pianificata. Dopo un golpe motivato ufficialmente dai presunti brogli elettorali con cui la "Lega nazionale per la democrazia" (Nld) di Suu Kyi si riconfermò al potere dopo cinque anni di governo, i militari rassicurano di voler indire nuove elezioni il prossimo anno. Ma è chiaro che senza Suu Kyi, e con chissà quali restrizioni al suo partito e ad altri movimenti democratici, le elezioni rischiano di essere un semplice paravento per la volontà del generale golpista Min Aung Hlaing di rimanere al potere, in un Paese dove già la Costituzione imposta dai militari oltre un decennio fa assicura loro un quarto dei seggi in Parlamento.
La popolazione birmana si è ribellata al colpo di stato con sorprendente energia, e si calcola che almeno 1’800 dissidenti siano stati uccisi, con altri 13’400 arrestati. Oltre a proteste nelle città, la resistenza si è organizzata nelle campagne, anche unendosi a diverse milizie etniche attive in lotta con il governo centrale da decenni. Ma l’esercito, senza mostrare nessuna disponibilità al compromesso, ha semplicemente aspettato che il dissenso di una popolazione stremata, tra Covid e crisi economica, perdesse l’inerzia. E con la comunità internazionale ormai focalizzata su una guerra in Europa e venti di recessione, anche lo sdegno verso gli eventi in Birmania si è annacquato.