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Che ci fanno le Supercoppe nel Golfo?

Per certi Paesi ospitare queste partite è un’operazione di sportwashing, leghe e club ne approfittano invece per lucrare su trofei di scarso valore

25 gennaio 2023
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C’erano Moggi, Blatter, Galliani, Giraudo, Gheddafi e il figlio. Non è l’inizio di una barzelletta di cattivo gusto, ma il parterre d’onore dello Stadio 11 giugno di Tripoli il 25 agosto 2002, per la finale di Supercoppa Italiana tra Juventus e Parma organizzata in Libia – malignano alcuni – per via dei buoni rapporti tra Silvio Berlusconi e il dittatore, in quel momento ancora saldamente al potere.

Intorno a loro la desolazione: spalti mezzi vuoti (si dice che il biglietto costi un quarto di uno stipendio medio di un cittadino libico), clima torrido e un campo da gioco in condizioni pietose, tanto che è stato necessario usare bombolette spray verdi per coprire i buchi marroni almeno a chi guarda dalla tv. I bianconeri vincono 2-1 con doppietta di Del Piero e si torna tutti a casa velocemente, non prima però di essere premiati da un raggiante Saadi Gheddafi.

Il terzo figlio del dittatore libico infatti non solo è azionista della Juventus, ma è un vero fanatico di calcio: presidente e giocatore dell’Al Ittihad, il club più importante del Paese, nonché vicepresidente della Federcalcio libica e numero 10 della Nazionale. Qualche anno dopo riuscirà anche a esordire in Serie A con la maglia del Perugia, proprio contro i bianconeri.

All’inizio fu la Cina

Quella fu la seconda edizione della Supercoppa Italiana all’estero (dopo una comparsata negli USA appena prima del Mondiale del ’94), la prima a segnare quella che diventerà un’abitudine, ovvero l’idea di portare il calcio europeo in Paesi disposti a pagare per avere qualche briciola della torta. Dal 2009, infatti, è toccato alla Cina ospitare a più riprese la sfida tra la vincente della Serie A e della Coppa Italia (ma non solo, Pechino ha ospitato per tre volte anche il Trophée des Champions francese).

Un’esperienza ai limiti del pionieristico, tra organizzazioni problematiche, tifosi di casa non proprio avvezzi e diversi piccoli intoppi, come quando nell’edizione del 2015 un drone spuntato dal nulla si era piazzato sopra la testa di Buffon impegnato a difendere la propria porta.

Da quando però Xi Jinping ha tagliato gli investimenti nel calcio, il testimone è stato raccolto dagli sceicchi. Non è una novità: il Manchester City in mano agli Emirati Arabi Uniti, il PSG al Qatar e ora il Newcastle all’Arabia Saudita, tutte le monarchie del Golfo usano il calcio per ottenere in cambio pubblicità positiva e per diventare più familiari e meno "cattivi" al pubblico internazionale (la cosiddetta pratica dello sportwashing).

Se però l’immissione dei capitali dei fondi sovrani nel calcio europeo è ormai una tendenza consolidata e per molti salvifica, la transumanza delle partite verso il Golfo è ancora una novità, almeno per ora. In questo il Mondiale in Qatar è servito un po’ da apripista: abituare sempre di più gli spettatori ad avere partite ufficiali disputate in pieno inverno nel mezzo del deserto.

La via tracciata dall’Italia

La Lega Calcio italiana è stata tra le prime a battere la rotta: nel 2019 la Supercoppa tra Juventus e Milan si disputò a Gedda e fu anticipata da polemiche sulla presenza di abbondanti settori dello stadio riservati agli uomini, ma anche per la questione dei diritti civili nel Paese (tornata di attualità per il Mondiale) e del terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul. La partita comunque era stata un successo, se non nello spettacolo visto lo striminzito 1-0, quanto meno nel risultato: gol decisivo di Cristiano Ronaldo, che in Arabia Saudita aveva alzato il primo trofeo con la nuova maglia bianconera.

Fu un successo, e molti altri campionati fecero altrettanto. Dal 2020 è arrivata in Arabia Saudita anche la Supercopa de España, in una versione allargata a quattro squadre. Un pacchetto da tre partite l’anno, semifinali e finale, venduto agli sceicchi al prezzo di 30 milioni di dollari a edizione fino al 2029, con l’obiettivo praticamente dichiarato di avere sempre, o almeno il più possibile, uno scontro tra Barcellona e Real Madrid.

Cosa avvenuta lo scorso 15 gennaio, con la squadra di Xavi che ha giocato una delle sue migliori partite stagionali battendo i rivali per 3-1 e alzando la coppa all’interno del King Fahd Stadium di Riyadh, dove solo quattro giorni dopo sono arrivate invece Inter e Milan, per la Supercoppa Italiana. La squadra di Inzaghi si è imposta per 3-0, e se vi è capitato di veder sparire sotto una teca il pallone dopo un gol per essere messo all’asta, dovete sapere che non è un modo per gli sceicchi di rientrare delle spese, ma un’iniziativa ideata da Socios.com, una piattaforma di Fan Token basata sulla tecnologia di blockchain che collabora con la Lega Calcio (ma questa è un’altra storia).

Trattasi di coppette

Le Supercoppe nazionali hanno il valore di essere allo stesso tempo vendibili e sacrificabili: assegnano un trofeo tra squadre prestigiose, ma è il trofeo meno importante. Anche per questo molti campionati la stanno esportando: la Francia ha disputato le ultime due edizioni in Israele (e poco importa se Hakimi è stato sommerso di fischi per le sue dichiarazioni a favore della Palestina) e addirittura ad Abu Dhabi si è appena svolta la Supercopa Argentina, un trofeo che era fermo dal 2019 e che è stato rispolverato per l’occasione. Boca Junior e Racing Avellaneda hanno attraversato mezzo mondo viaggiando sullo stesso aereo (ma con un preciso sistema di assegnazione dei posti per entrare meno a contatto possibile, visto che il loro ultimo incrocio si è concluso con 10 cartellini rossi) per giocarsi una partita che interessa poco o nulla, per poi tornare in patria e iniziare la nuova stagione. E poco importa se per i tifosi "locali" diventa impossibile a livello logistico o economico partecipare a queste partite allo stadio. Sono anni che il calcio ha lasciato intendere che il tifo più identitario è anche quello meno interessante.

Mercato in crescita

Per la Supercoppa italiana già si parla di un rilancio dell’Arabia Saudita, con un’offerta da 140 milioni di euro per ospitare quattro delle prossime sei edizioni. C’è una condizione vincolante però: che il formato diventi come quello spagnolo, ovvero con quattro squadre e tre partite, sempre da disputare in inverno. Come faranno i club a infilare altre partite e altri viaggi in un calendario già ingolfato (e che lo sarà ancora di più dal 2024, con la riforma della Champions League)? È una domanda che nessuno si fa, perché questi eventi, come abbiamo visto, portano soldi ma non solo: permettono anche di aprire canali preferenziali per avere relazioni economiche e commerciali con Paesi con cui è difficile dialogare attraverso la diplomazia.

Non solo pallone

È anche per questo che nel 2023, come già da qualche anno, la Formula 1 correrà in tutti i Paesi del golfo, e che nel 2022 ha fatto finta di nulla quando un missile lanciato dai ribelli yemeniti Houthi ha colpito un impianto petrolifero della Aramco (sponsor tra i più importanti e vistosi) a pochissima distanza dalla pista dove erano impegnati i piloti. O del perché l’Arabia Saudita ha creato un circuito di golf chiamato LIV golf parallelo a quello del PGA Tour (il più importante a livello mondiale) con montepremi molto più ricchi per attrarre i migliori giocatori del mondo e il loro pubblico. Perché è nelle aree VIP di un paddock o ai tavoli esclusivi di un circolo di golf che si stringono mani, si incontrano sponsor e sceicchi, dove si chiudono affari milionari. E poco importa se portare un campo da golf o un Gran Premio nel deserto ha dei costi altissimi pure a livello ambientale.

Se il Qatar è stato il primo a usare il calcio in un certo modo, anche per prepararsi al Mondiale recentemente ospitato, l’Arabia Saudita sembra aver imparato la lezione di Doha. Lo sport è diventato centrale nel suo "Vision 2030", un progetto che prevede di ridurre la dipendenza dal petrolio, diversificando la sua economia e promuovendo un’immagine più secolare del Regno, che dovrebbe culminare con l’organizzazione del Mondiale 2030 insieme a Grecia ed Egitto. In Arabia Saudita è passato il wrestling della WWE; il tennis maschile, con un’esibizione ultramilionaria che si disputa a fine stagione; la boxe, a Riyadh si è svolto l’attesissimo incontro tra Anthony Joshua e Oleksandr Usyk e molti altri sport. Ma non solo: l’Arabia Saudita sta investendo ingenti somme per diventare un paradiso degli e-sports, considerati la nuova frontiera dell’intrattenimento.

Sfoggio di ricchezza

Se tutto questo non vi basta, l’ultimo evento sportivo ospitato nel golfo è forse il picco di tutta questa operazione, fra magniloquenza e irrilevanza. Il 19 gennaio si è infatti disputata la Riyadh Season Cup, che di per sé non sarebbe altro che una coppetta amichevole, se non fosse che questa volta vedeva uno davanti all’altro Messi e Cristiano Ronaldo. L’argentino con la maglia del PSG, il portoghese con quella del Saudi All-Star XI, ovvero i migliori giocatori del campionato saudita dove è appena approdato con un contratto da 250 milioni di dollari l’anno. L’Arabia Saudita si è quindi comprato quello che sarà (forse) l’ultimo incontro su un campo da calcio di una delle più grandi rivalità della storia dello sport. E poco importa che sia finita 5-4, che a noi sia sembrato un ultimo capitolo posticcio e non necessario.

Il rischio è scordare le magagne

Per gli sceicchi è un vanto da mostrare, come i grattaceli chilometrici e le stazioni sciistiche al chiuso, ma non solo. È anche e soprattutto un passo in avanti verso la normalizzazione dei regimi che comandano. Le discussioni del 2019 in Italia, ma anche quelle che hanno preceduto il Mondiale, sull’opportunità di portare il nostro sport in Paesi che non rispettano le nostre regole di democrazia sono diventate appena del rumore di fondo, e più andremo avanti meno ci apparirà strano o problematico. Fino a qualche anno fa immaginare una finale di Champions League nel deserto era pura utopia, ma oggi quanto è distante dall’avvenire?