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‘Esserci’. L’impronta di Mario Timbal alla Rsi

Il bilancio del direttore su cosa è cambiato e cosa ancora potrebbe cambiare, tra nuovi programmi, successi, critiche e grattacapi politici

(Rsi/Pizzicannella)
25 gennaio 2023
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Classe 1977, Mario Timbal dirige la Rsi dall’aprile 2021, quando il gruppo Srg/Ssr volle qualcuno che venisse da fuori per smuovere un po’ le acque, o almeno così supponiamo (all’epoca guidava la fondazione culturale Luma ad Arles dopo aver lavorato per il Locarno Film Festival e per Cannondale, quelli delle biciclette). Considerato il fatto che qualsiasi dirigente deve dedicare i suoi primi mesi a capire come funziona l’azienda e risolvere le urgenze, possiamo dire che il 2022 è stato il primo anno completo che porti davvero la sua cifra. Ottima occasione per un primo bilancio.

È arrivato da outsider in un ambiente estremamente ampio e strutturato (secondo i detrattori: labirintico e pachidermico). Cos’è cambiato ora? E cosa deve ancora cambiare?

Il primo anno ho trovato sulla scrivania dossier molto urgenti: le inchieste sull’integrità personale, il piano di risparmio da attuare, le polemiche sul progetto Lyra per la revisione dell’offerta radio, tutte cose alle quali ho dato la priorità. Il 2022 è invece il primo anno in cui il palinsesto reca il segno di come vedo il futuro della Rsi, anche se ancora molto resta da fare. Anzitutto direi che abbiamo dato importanza a "esserci" sempre là dove le cose accadono, un punto sul quale in passato eravamo stati molto criticati. Sembra scontato, ma soprattutto in televisione questo comporta un grande sforzo di flessibilità organizzativa. Abbiamo anche dedicato molte energie alla cultura.

Come?

In radio, sbloccando la questione Rete Due con un nuovo palinsesto che amplia le scelte tematiche e valorizza le varie competenze; in televisione, cercando di riorganizzare un’offerta culturale precedentemente molto destrutturata e spesso soggetta a critiche. Abbiamo quindi sviluppato due programmi che dessero la direzione. Uno è ‘La storia infinita’, che ripensa i temi storici locali come dialogo alla pari – entusiasmando il pubblico invece di trattarlo dall’alto al basso – e parla del territorio in una prospettiva più ampia, con un ‘tono di voce’ originale. Discorso analogo per ‘Cliché’, che non cerca di semplificare nella solita chiave divulgativa la complessità, ma al contrario mostra come essa si celi anche dietro all’apparente semplicità dei luoghi comuni. Questo permette una grande versatilità nelle scelte narrative, negli ospiti e nei temi.

A proposito di parità e dialogo col pubblico: vediamo sempre più il microfono aperto, il pubblico chiamato a partecipare e dire la sua, quella che in gergo si chiama ‘vox populi’. Scusi lo snobismo, però: che contributo apporta al dibattito quel che ne pensa il primo venuto di questo o quell’argomento?

Se pensiamo a un programma radiofonico come ‘Controcorrente’, intanto dobbiamo constatarne il grande successo: non riusciamo a dare spazio a tutti coloro che vorrebbero intervenire. La loro voce permette all’ascoltatore di capire la ‘temperatura’ cantonale, quali sono umori e opinioni che circolano sul territorio. Naturalmente questo richiede un moderatore di grande esperienza e una scheda informativa di partenza rigorosa. Allo stesso tempo, così si coinvolge un pubblico nuovo che poi viene ‘accompagnato’ verso l’informazione, programmata subito dopo.

Cosa intendete cambiare ancora?

Dall’idea alla messa in onda di un programma passa almeno un anno, quindi la prima cosa da fare per qualsiasi cambiamento è la pianificazione delle risorse. Dopo i tagli da sei milioni richiesti all’ente, l’anno scorso abbiamo aumentato di tre milioni le produzioni proprie, un record per la nostra televisione che ha permesso appunto la realizzazione di nuovi programmi. Questo autunno continueremo a crescere in questo senso, sia nell’informazione che nell’intrattenimento.

A tal proposito, la definizione di servizio pubblico che ispira la Bbc è "informare, educare, intrattenere". Diversi osservatori – anche nel Consiglio del pubblico – ritengono che la Rsi si stia spostando troppo sul terzo di questi compiti: quiz, trasmissioni-nostalgia, show ‘gigioni’.

Le critiche di questo tipo precedono già il mio arrivo. La concessione Ssr prescrive informazione, cultura, ma anche intrattenimento. L’importante è che quest’ultimo contribuisca all’unione del Paese e all’informazione, evitando le derive trash tipiche di certe offerte private. Anche in questo caso si dovrà pensare a modelli nuovi. Io stesso pensavo all’inizio di diminuire i quiz e fare altro: ma i risultati di pubblico sono tali che anche il quiz e lo show sono fondamentali per raggiungere tutto il pubblico. Certo, li si deve fare senza cedere alla tentazione di compiacere senza costrutto, bensì veicolando contenuti all’altezza del servizio pubblico. Prendiamo ‘In cammino tra i ghiacciai’, la trasmissione dedicata al trekking e alla scoperta del paesaggio: per molti versi è un reality show, ma non qualcosa di vacuo come si vede altrove.

Sempre sull’intrattenimento: la comicità non manca, ma che ne è della satira? Si direbbero lontani i tempi del Cabaret, della Palmita e anche di Frontaliers. Sono i telespettatori che hanno perso il senso dell’umorismo, oppure i politici?

Direi che è un misto. Vogliamo ad esempio sviluppare la satira e su questo fronte abbiamo lavorato, credo che un buon esempio sia ‘Il villaggio di Rete Tre’. Però si pone una questione culturale: programmi geniali e dissacranti come il romando "52 Minutes" trovano difficilmente nella Svizzera italiana un pubblico pronto a recepirli senza sentirsi offeso. Un esempio: l’ultima puntata televisiva del Villaggio ironizzava sullo stereotipo del ticinese che gioisce perché l’Italia non si è qualificata ai Mondiali. Beh, perfino il presidente di un partito (il co-presidente socialista Fabrizio Sirica, ndr) si è sentito offeso al punto di lamentarsene sui social network. Eppure il Villaggio in televisione ha dimostrato di poter competere con l’offerta e le risorse dei grandi network con un format ancorato sul territorio, giocando in modo magari ‘facile’, ma intelligente coi suoi luoghi comuni e le sue debolezze.

In radio, l’impressione è che si sia voluto passare dai programmi al flusso, con grandi fasce indistinte di infotainment, ad esempio nel pomeriggio di Rete Uno: molti hanno storto il naso, poco convinti da quel mix di risatine, notiziole da rotocalco e musica arci-pop.

In merito a Rete Uno stiamo effettivamente lavorando per tornare a più contenuti e programmi. Anche perché intanto Rete Tre ha ottenuto ottimi risultati, conquistando quota di mercato proprio con un’offerta più di flusso, permettendoci così di riposizionare Rete Uno.

Ecco, i risultati: rispetto al secondo semestre 2021, secondo i dati Mediapulse, a fine 2022 la quota di radioascoltatori tiene (oltre il 57%) e quella di telespettatori anche (oltre il 29%). Ci sono però fluttuazioni nelle singole reti: La1 perde quasi il 3% della "torta" scendendo sotto la soglia psicologica del 20%; La2 ne guadagna però quasi altrettanti. Tra le radio è Rete Uno a perdere quasi due punti percentuali (scendendo a 33,7%) e Rete Due perde mezzo punto (si passa dal 4,7 al 4,3%, superata da una radio pubblica di musica ‘da tappezzeria’ come Swiss Pop). Rete Tre fa un salto in avanti, dal 17 a quasi il 20% della quota di mercato. Come dobbiamo leggere questi rilevamenti?

Intanto occorre precisare che è cambiata la metodologia di rilevamento, per cui certi dati vanno presi con le pinze. In tivù abbiamo pagato l’assenza di un grande evento sportivo estivo, che solleva l’audience in un periodo dell’anno altrimenti poco propizio, mentre i Mondiali di calcio in inverno sono coincisi con un momento di audience già tradizionalmente alta. In radio siamo in controtendenza: se prendo la quota di mercato dell’intero anno di tutte le reti abbiamo un +0,6%, con Rete Uno che tiene. Quanto a Rete Due, prima della polemica su Lyra era al 3%, poi è saltata al 6% e ora si è assestata ben sopra al 4%. In un mercato generale che si rimpicciolisce, si tratta di risultati in linea con le nostre aspettative.

Intanto la competizione è esplosa, da Netflix ai video di gattini su Facebook, da Spotify ai podcast. Che impatto ha sugli indici?

Con un’offerta così frammentata, i grandi indici di ascolto d’una volta ormai li fanno solo i grandi eventi in diretta, come i Mondiali. Fondamentale diventa allora la rilevanza dei singoli programmi sui pubblici target. Un buon esempio è ancora una volta ‘La storia infinita’, che ha dimostrato la nostra unicità – solo la radiotelevisione pubblica dispone di risorse e know how per realizzare quel tipo di programma –, ha generato reazioni molto positive e grandissima interazione sui social network. Chi apprezza un programma del genere apprezza il servizio pubblico: sono quegli spettatori lì, di ogni tipo, in cerca di qualcosa che altrove non possono trovare, a contare per noi anche al di là degli indici assoluti.

Questo coinvolgimento, però, risulta sempre più difficile soprattutto rispetto ai giovani, abituati a fruire di certe offerte in modo non lineare e su una marea di piattaforme. Cosa state facendo in questo senso, tanto dal punto di vista dei contenuti quanto da quello degli strumenti tecnologici?

Qui si intrecciano le strategie di programma Rsi e le piattaforme nazionali. Abbiamo rafforzato molto le risorse dedicate al digitale e la distribuzione. I risultati si vedono: la distribuzione digitale – web, app, Play – registra un +18% in un anno, trainati da informazione e sport, con oltre 42 milioni di visite per Rsi. A questo si affianca lo sviluppo di formati e contenuti solo social pensati per una fascia giovane, come Cult+ e Spam. Tanto che su Instagram abbiamo aumentato le visualizzazioni del 142%. Stiamo recuperando il ritardo sul web che Rsi aveva accumulato negli scorsi anni.

INFORMAZIONE

Verso più inchieste e più spazio agli inviati

Venendo all’informazione, ultimamente abbiamo assistito a un avvicendamento al vertice del Telegiornale. Perché?

Si è trattato di un avvicendamento naturale e condiviso dagli interessati: è fisiologico, dopo dieci anni della stessa conduzione, puntare su un rinnovamento, comunque mantenendo qualità e autorevolezza.

Cos’altro ci aspetta?

Anzitutto, essendo gli unici ad avere inviati, vogliamo dar loro maggiore spazio. Non penso solo ai corrispondenti dall’estero, ma anche dalle sedi di Coira, Berna, Zurigo. Questo perché mi pare importante creare più ponti col resto della Svizzera: un compito essenziale del servizio pubblico è quello di federare questo Paese, specie nella Svizzera italiana, dove a livello informativo vediamo un certo allontanamento e isolamento dall’attualità nazionale, quasi che il Gottardo fosse un muro.

Il fiore all’occhiello del giornalismo d’inchiesta è e resta Falò, trasmissione che – insieme a Patti Chiari – ha spesso saputo svegliare un cantone sonnolento e una classe politica compiacente. Ora le inchieste paiono lasciare spazio a contenuti più ‘soft’, su temi quali le scarpe da ginnastica e gli orologi di lusso. Non si scava più abbastanza?

Al contrario, l’inchiesta è qualcosa che vogliamo fare di più e alla quale abbiamo dato più mezzi, tanto che abbiamo formato una nuova cellula per ampliarla anche oltre Falò. Trasmissione che comunque continua a fare bene il suo lavoro, come dimostrano ad esempio i recenti lavori sul femminicidio o sui casi di molestie da parte di un funzionario del Dss. Ma anche temi come le sneakers e gli orologi sono stati affrontati in maniera critica, illustrando storture e derive e al contempo ampliando il pubblico di riferimento. D’altronde sarebbe difficile pretendere uno scandalo a settimana, in una regione da 350mila abitanti.

Millevoci, Modem, Moby Dick – per stare solo alla radio – sono da tempo sinonimo di approfondimento e dibattito sui temi d’attualità politica, sociale e culturale. Alphaville ne costituisce ora la declinazione più ‘intellettuale’, sia pure in senso ampio ed eclettico. Cosa ci riserva il futuro?

In un mondo in cui si è esposti a un flusso di informazioni frenetico e continuo, credo sia importante creare sempre più spazi per approfondire e riflettere. Un esempio è ‘Seidisera’, che ha sostituito in radio le Cronache. Molti sono rimasti spiazzati e delusi, abituati com’erano alla ‘lista’ di notizie in rapida successione. Però crediamo che a quell’ora, magari mentre si è in auto o in treno, sia importante cogliere l’occasione per ampliare la prospettiva dopo una giornata di breaking news. Gli indici d’ascolto sono leggermente scesi, ma sono convinto che chi ci segue lo faccia perché apprezza quel che di unico possiamo offrire.

Veniamo allo sport: i Mondiali hanno riscosso un significativo successo di pubblico, anche se non tutti hanno gradito i siparietti arabeggianti e una certa leggerezza local (pensiamo a titoli come ‘n’Doha nem’). Allo stesso tempo, avete dovuto fare i conti con la perdita dei diritti per le partite di hockey. Che bilancio trarne?

A dire il vero, ‘n’Doha nem’ ha ricevuto più apprezzamenti che critiche. Più in generale, per noi il 2022 è stato effettivamente l’anno della perdita dell’hockey, con Upc Sunrise che ha al contempo acquisito i diritti e una partecipazione in CH Media, creando così un’inedita unione tra telecom e media che di fatto ci ha escluso dai diritti. Abbiamo dunque deciso di continuare a puntare su questo sport, ma in modo diverso: creando uno speciale settimanale (‘That’s hockey’) e offrendo così tutto il contorno di analisi e commento che altrove non si ha la forza di offrire. Una scelta vincente, se è vero che anche il presidente della Lega Hockey si è già lamentato della gestione privata. Visto che anche i club e i loro sponsor vivono di audience, vedremo cosa succederà tra qualche anno. Intanto ci siamo assicurati tutte le prossime edizioni di Mondiali di calcio e Olimpiadi.

LA QUESTIONE POLITICA

La minaccia dei 200 franchi e le regole per le Cantonali

Ora, l’elefante nella stanza. È piuttosto scontato che tra un paio d’anni saremo chiamati a votare per la riduzione del canone radiotelevisivo a 200 franchi (contro gli attuali 335). C’è chi dice che per restare a galla con meno soldi basterà eliminare i doppioni tra le varie aziende del gruppo Ssr, potenziare le coproduzioni e tagliare quel che è di troppo (sul sito Ssr si contano oltre 50 tra canali tivù e radio, siti web, hub e canali social). Intanto grandi editori privati vi accusano di sconfinare, attraverso un’offerta che ormai trascende di molto il semplice mezzo radiotelevisivo. Cosa risponde?

Per prima cosa, noi abbiamo un mandato il cui rispetto è sorvegliato dalle autorità pubbliche: difficile dunque sostenere che andiamo fuori dal nostro perimetro. A tal proposito, la raccolta firme per il canone a 200 franchi si interseca con la nuova concessione, da siglare entro il 2024. Tale concessione determinerà i nostri compiti, cosa fondamentale per capire quante risorse serviranno: la questione dunque è molto più complessa di un semplice "taglio sì, taglio no". A ciò si aggiunge un nuovo elemento: il cambio di direzione al Datec (Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni, ndr), dove a Simonetta Sommaruga è succeduto Albert Rösti.

Una socialista amica del servizio pubblico ha dunque lasciato le chiavi a un Udc che ha addirittura firmato l’iniziativa per il canone a 200 franchi. Balla male.

Ci troviamo piuttosto in una situazione inedita. Il consigliere federale entrerà nell’universo Srg/ssr elaborando proposte e nuove soluzioni da condividere collegialmente con l’intero governo. A bocce non ancora ferme è difficile fare previsioni su quel che accadrà. Quello che intanto possiamo fare è trasformarci, rinnovarci, adeguarci alle esigenze e alle aspettative del Paese e, nel nostro caso, della Svizzera italiana.

Un possibile taglio di funzioni potrebbe riguardare anzitutto il web, dove secondo molti privati la vostra presenza limita la possibilità di fare abbonamenti.

È un ragionamento molto discutibile, smentito da alcuni studi in altri Paesi e dal fatto che sul web non siamo dominanti, ma a livello nazionale contiamo tra il 15 e il 20% degli utenti. Anche lì si deve dimostrare il nostro valore e rilevanza in una serie di offerte che altrove sarebbe impossibile sviluppare, specie nella Svizzera italiana.

Restando alla politica, si avvicinano le elezioni Cantonali. Il suo predecessore Maurizio Canetta si è candidato per il Gran Consiglio ticinese tra le fila del Partito socialista. Non è un bell’assist per chi vi critica raccontando che alla Rsi "son tutti di sinistra"?

Candidarsi è un diritto sacrosanto di ogni cittadino e Maurizio nel corso di tutta la sua carriera in Rsi ha sempre dimostrato grande professionalità e rispetto dei valori del servizio pubblico. Detto questo, a livello personale, ritengo la sua scelta inopportuna.

La campagna per le Cantonali è il momento in cui gli animi si scaldano di più e i giornalisti ricevono più pressioni: perfino chi per quattro anni è rimasto in congelatore s’insinua, si sbraccia, s’indigna. Come difende i ‘suoi’?

Erigendo un muro. Nei giorni scorsi, come si fa sempre, abbiamo incontrato tutti i partiti per discutere le regole del gioco, vista la centralità del servizio pubblico in termini di dibattiti e informazione politica. Impossibile che tutti siano contenti e quest’anno penso che abbiamo superato un record: un partito (il Movimento per il socialismo, ndr) ha criticato le regole già un giorno prima che gliele presentassimo, accusandoci di marginalizzare le forze esterne al governo. Questo per dire che è chiaro come qualsiasi scelta editoriale in un anno elettorale finirà giocoforza per scontentare qualcuno. Che tutti cerchino poi di influenzarci o magari anche strumentalizzarci fa parte del gioco: il mio compito è fare scudo e non lasciare che le dinamiche partitiche influenzino il nostro lavoro.

Vada come vada, ci aspetta la consueta maratona di dibattiti. Da una parte c’è l’esigenza di dare voce a tutti, dall’altra una vecchia regola che le discussioni su Covid e guerra in Ucraina hanno reso ancor più centrale: "Se uno dice che piove e un altro che c’è il sole, il giornalista non deve riportare le opinioni di entrambi, ma guardare fuori dalla finestra e dirci che tempo fa". Come si fa a conciliare pluralismo e adesione alla realtà?

Abbiamo impostato un filtro di fact-checking, anche a posteriori, per evitare la diffusione di bufale. La qualità dei dibattiti, però, richiede la collaborazione di chi vi partecipa: certo, il moderatore può imporsi per interrompere il tale che dice palesi falsità o il tal altro che insulta, ma senza uno sforzo da parte di tutte le compagini politiche diventa difficile garantire una discussione civile e costruttiva. In questo caso, insomma, la qualità e la possibilità per gli elettori di orientarsi dipendono molto dai protagonisti della campagna elettorale, dalla loro rinuncia a quell’aggressività che purtroppo prende spesso piede negli ambiti più svariati.