Messaggi in bottiglia per destinatari ignoti. Uno al mese tra rari e sconosciuti, oltraggiosi e grotteschi, visionari e assurdi, quindi necessari
‘Biblioteca segreta’, la nuova rubrica
"Secondo lei, quali libri sono stati scritti per pura bontà? La capanna dello zio Tom? I miserabili? Certo che no. Libri del genere si scrivono per essere ben accolti nei salotti. No, mi creda, i libri scritti per pura bontà sono rarissimi. Sono opere che si creano in abiezione e in solitudine, ben sapendo che dopo averle scagliate in faccia al mondo si sarà ancora più soli e più abietti. È normale, la principale caratteristica della gentilezza disinteressata è di essere irriconoscibile, inconoscibile, invisibile, insospettabile, perché un beneficio che dica il suo nome non è mai disinteressato" (da ‘Igiene dell’assassino’ di Amélie Nothomb)
Entriamo in una libreria. Non in una di quelle moderne boutiques da centro commerciale, che smerciano ninnoli, gingilli e carabattole, penne, pupazzi e cotillons insieme alle ultime uscite editoriali, ma in una libreria come si deve, che vende solo ed esclusivamente libri. Non abbiamo in mente un titolo o un autore: la rapida scorsa che abbiamo dato agli inserti letterari dei quotidiani, anziché instradarci, ci ha lasciato un senso di stordimento e di confusione: troppe novità, tutte imperdibili, essenziali, fondamentali, sguardi intensi e coraggiosi oppure ironici e graffianti, indagini dolorose e sofferte che aprono squarci di umanità e di verità. Meglio lasciar fare al caso, bighellonando con la disposizione d’animo di un flâneur disposto a lasciarsi sorprendere. Difficile non pensare alla spassosa tassonomia che apre ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’, mentre sventiamo gli assalti dei Libri Fatti Per Altri Usi Che La Lettura, i Libri Già Letti Senza Nemmeno Bisogno D’Aprirli In Quanto Appartenenti Alla Categoria Del Già Letto Prima Ancora D’Essere Stato Scritto, che ci fissano, ora minacciosi ora imploranti, da ettari ed ettari di scaffali. Insensibili al canto delle sirene pubblicitarie, scettici sul passaparola, non del tutto persuasi dai canoni scolastici, individuiamo la nicchia dei Libri Che Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.
Se saremo fortunati, potremo premiare l’azzardo di un editore coraggioso, ma difficilmente proveremo l’euforia che nel 1964 travolse il giovane Antonio Tabucchi, uditore alla Sorbonne, quando sulla bancarella di un bouquiniste alla Gare de Lyon scovò una copia di ‘Tabacaria’ di Álvaro de Campos ("Non sono niente / Non sarò mai niente / Non posso voler essere niente / A parte questo, ho dentro di me tutti i sogni del mondo"), la cui lettura lo avrebbe portato a studiare il portoghese e a scrivere, e ancora più raramente ci sentiremo in balìa di una forza misteriosa, come quella che, in ‘Treno di notte per Lisbona’, induce Raimund Gregorius, professore in un liceo bernese, a cambiare vita dopo essersi casualmente imbattuto, in una libreria antiquaria, nelle riflessioni esistenziali del giovane portoghese Amadeu de Prado. E tra i volumi rimasti invenduti, sconosciuti al pubblico e ignorati dai critici, potrebbero marcire dei capolavori oscuri in grado di premerci le ossa del costato o la spina dorsale (ce lo spiega Nabokov nelle Lezioni di letteratura: "Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la più alta forma di emozione che l’umanità abbia raggiunto sviluppando la pura arte e la pura poesia"), come riesce solo a quegli scrittori che a ogni pagina si giocano la vita e hanno finito per spegnersi e rimanere soffocati, "negletti", scrive Leopardi dei più grandi, "nel consorzio degli uomini". Libri che scadono come il cibo, come i "formaggini culturali" detestati da Bianciardi, ma ci leggono, ci interrogano, ci sfidano.
Su quale tema? Risponde Enrique Vila-Matas in ‘Questa bruma insensata’ (ed. Feltrinelli), uno dei pochi romanzi recenti da leggere con attenzione e gratitudine: "L’angoscia della morte, l’angoscia del sapere che si muore totalmente soli e che il resto del mondo va avanti felicemente senza di noi. Non è forse di questo che parla la miglior letteratura che abbiamo mai conosciuto? La grande narrativa non cerca forse di aggravare il senso di reclusione e di solitudine e di morte e quell’impressione che la vita sia come una frase incompleta che a lungo andare non è all’altezza delle nostre aspettative?".
A questo genere di libri, che non sono andati oltre la prima edizione o la prima ristampa e sono oggi introvabili anche tra i remainder e reperibili al massimo in Rete o in biblioteca o in una pesca fortunata nei mercatini dell’usato, dedicheremo uno spazio mensile. Noti a una minoranza di studiosi e di appassionati, ci parlano da pagine ingiallite, piegate e magari sottolineate, da copertine impolverate e usurate, ci arrivano da letture precedenti, da altre case e altre vite, da altre mani e altre scrivanie, con la loro eleganza fanée, i caratteri desueti, un’autorevolezza che istintivamente non riconosceremmo ai libri da classifica, ai libri-della-settimana, ai libri alla moda. Ci occuperemo di messaggi in bottiglia per destinatari ignoti o dispersi, di capsule del tempo da epoche remote, di lacrime della luna raccolte, come nella poesia di Baudelaire, prima di evaporare e disperdersi. Sono le ipotesi su un mondo inconoscibile di Uwe Johnson, i castelli barocchi di John Barth, i romanzi di formazione al contrario di Stanislaw Witkiewicz, le beffe all’establishment culturale di Max Aub: i tasselli di una biblioteca dei libri perduti, oltraggiosi e grotteschi, visionari e assurdi e, questi sì, necessari.
Prima edizione
Quando Montaigne degrada a congetture le fanatiche e potenti certezze delle religioni, sbertucciando l’orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote, getta un ponte verso la nostra epoca: "Mi si fanno odiare le cose verosimili quando mi vengono obbligate come infallibili. A me piacciono quelle parole che addolciscono e moderano la verità delle nostre dichiarazioni: Forse, In un certo modo, Qualche, Si dice, Io penso, e simili". Illazioni, supposizioni, ipotesi, visioni parziali e incomplete, interpretazioni soggettive e inaffidabili: altro non permette, del resto, un mondo non più raccontabile, un groviglio di fenomeni, cause, opinioni con cui la letteratura deve scendere a patti, non più tentando di dipanarlo o di dominarlo, ma sforzandosi di riprodurne almeno in parte la contraddittoria complessità.
È questo il problema centrale dell’opera di Uwe Johnson (1934-1984), sin dal romanzo di debutto, ‘Congetture su Jakob’, che mise a dura prova un raffinato esegeta come Ladislao Mittner: "Fra brani stampati a caratteri normali e in corsivo, il montaggio su nastri fotografici e sonori paralleli, intrecciati e sovrapposti, fra nude e scarne relazioni, monologhi e dialoghi spettrali nella loro apparente oggettività ed improvvisi e rapidissimi fasci di luce che cadono sul passato, il lettore non solo perde spesso il filo, ma talora con tutta la buona volontà non riesce a stabilire neppure chi parla o pensa (o agisce) nei singoli brani".
Il fascino dell’architettura labirintica delle Congetture risiede proprio nel gusto di perdervisi, lasciando che l’affastellamento e la giustapposizione di punti di vista, i frammenti di dialoghi e le narrazioni in prima persona si fondano con una nebbia che del romanzo è la condizione meteorologica costante. Non sappiamo, per esempio, chi pronunci l’incipit: "Ma Jakob ha sempre attraversato i binari". Jakob Abs, capo manovratore dello scalo merci della stazione di Dresda, in una Germania Orientale non ancora insormontabilmente separata da quella occidentale (le frontiere si possono attraversare e il Muro di Berlino verrà eretto due anni dopo), è morto investito da una locomotiva mentre, appunto, attraversava i binari. Questo brandello di conversazione, che oppone al dato oggettivo della morte l’incredulità per via della competenza di un lavoratore esperto ed esemplare, che aveva ripetuto quel movimento mille volte e con la massima attenzione ("ed erano sette anni che lavorava in ferrovia"), introduce il primo dei tanti dubbi che innervano il romanzo: si tratta di una morte accidentale, dovuta alla situazione atmosferica ("e guarda che tempo, che novembre, non ci vedi a dieci passi di distanza") oppure di un suicidio o addirittura di un omicidio?
Le complicazioni politico-poliziesche, il coinvolgimento dei servizi segreti, le tensioni amorose irrisolte e un’insolubile aria di mistero sarebbero ingredienti adatti per cucinare una storia alla Graham Greene. E invece muovono una vicenda raccontata lateralmente, con inquadrature parziali, tra personaggi che hanno l’aria di non dire tutto ciò che sanno, straniati dal contrasto tra gli assiomi dell’ideologia marxista e una sorda e sempre meno convinta resistenza a lasciarsene imbrigliare, e descrizioni minuziose e ossessive, da roman du regard, dei luoghi di lavoro e dei funzionamenti dei macchinari ferroviari, a indicare le coordinate in cui si imprigionano esistenze ridotte a funzioni produttive. Una disumanizzazione che, secondo modalità diverse, Jakob riscontrerà anche all’Ovest, nel corso di una breve trasferta per incontrare la sorellastra. Ed è da manifestazioni di quotidiana umanità, anche da parte di personaggi insospettabili come il poliziotto Rohlfs, funzionario della Stasi, che sembra aprirsi, nella nebbia delle Congetture, una possibilità di sopravvivenza in un mondo che rimane impenetrabile. Possibilità che indusse Mittner a definire il romanzo "uno dei più umani della nostra età, anche se attraverso la storia del protagonista – e di tante altre figure – rappresenti la più compiuta disumanizzazione politica e sociale".