Il Locarno Film Festival in sostegno dell’attrice, Pardo 2002, in carcere a Teheran da sabato scorso. Parla Giona A. Nazzaro, direttore artistico
"Sedetevi e aspettate le conseguenze della vostra sete di sangue". E ancora: "Il silenzio significa sostenere la tirannia e i tiranni". Taraneh Alidoosti, considerata tra le attrici iraniane più influenti del Paese, è in carcere a Teheran dallo scorso sabato. Si era rivolta alla Repubblica islamica dal proprio account social criticando l’esecuzione del 23enne artista Mohsen Shekari; e lo aveva fatto senza indossare l’hijab. L’arresto di Alidoosti è l’ultima eco mediatica su di una linea temporale lunga quarant’anni, ma che dalla morte di Mahsa Amini – 22enne curdo-iraniana deceduta mentre si trovava sotto custodia della polizia morale – ha dallo scorso settembre un tratto più marcato.
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Giona A. Nazzaro, direttore artistico del Locarno FIlm Festival
«È con grande sgomento che si segue quel che accade oggi, con un potere decisamente sanguinario che si rifiuta di arrendersi di fronte all’evidenza di avere esaurito qualsivoglia ruolo storico che possa mai avere avuto, invece che farsi finalmente da parte». Parole alla Regione di Giona A. Nazzaro, direttore artistico di quel Locarno Film Festival che nel 2002 consegnò a Taraneh Alidoosti il Pardo alla Miglior attrice di quell’edizione. All’epoca 18enne, Alidoosti era la pressoché esordiente interprete di ‘Man, taraneh, panzdah sal daram’ di Rasoul Sadrameli, premio speciale della Giuria.
Dai suoi canali ufficiali, il Locarno Film Festival chiede la liberazione immediata dell’attrice. Era già accaduto per Jafar Panahi, Pardo d’oro nel 1997 per ‘The mirror’: in luglio, il regista iraniano era stato incarcerato per aver chiesto conto degli omologhi Mohammad Rasoulof e Mostafa Al-Ahmad, arrestati in quanto "sovversivi". La colpa: aver denunciato l’uso della violenza e delle armi contro i manifestanti scesi in piazza dopo il crollo dell’edificio commerciale ‘Metropol’ ad Abadan, che in maggio fece più di quaranta vittime.
Con l’arresto di Alidoosti, il Festival pubblica un secondo "messaggio di sostegno per l’Iran", accompagnato dalla musica del cantante Shervin Hajipour, noto per il brano ‘Baraye’, inno delle proteste in nome di Mahsa Amini. "Ciò che accade in Iran – scrive il Festival sotto l’eloquente hashtag #FreeTaranehAlidoosti – è sotto gli occhi di tutti. Eppure, il silenzio occidentale è sconfortante, nonostante encomiabili eccezioni. La rivoluzione iraniana, pacifica e gioiosa, è aggredita con violenza estrema, odiosa, da un potere che non intende ragioni". Il Festival – "Luogo deputato alla libertà d’espressione e di parola (…) che ha sempre ascoltato le voci provenienti dal cinema iraniano" – denuncia fraintendimenti e colpevoli silenzi, anche e soprattutto di settore: "Solo quando la mannaia della repressione si abbatteva su Jafar Panahi, Mohammad Rasolouf, Keywan Karimi e tantissimi altri ci si svegliava improvvisamente dal torpore".
Giona A. Nazzaro. Il Locarno Film Festival rilancia quel "tacere significa essere complici" che è costato il carcere a Taraneh Alidoosti. Ma va oltre, denunciando un segnale mai raccolto. Di quale ‘torpore’ si tratta?
Per anni, a ogni passaggio nei festival, si sono letti i film iraniani come permeati da una sorta di candido pudore. Si trattava, al contrario, di un chiaro segno di disagio rispetto all’impossibilità di dire alcune cose, un disagio per il quale sarebbe servito lavorare in modo attento intorno al non detto. Non è un caso che, dopo molti anni, il cinema iraniano sia giunto alla fine di questa strategia formale. Ce lo aveva detto lo stesso Kiarostami nel suo ultimo film, per quanto bellissimo e struggente. I suoi lavori realizzati in Europa e Giappone erano diversi da quelli realizzati in patria. Sovente, non abbiamo inteso bene ciò che accadeva: ci siamo fidati dei film che arrivavano dall’Iran, stabilendo con essi un rapporto non esattamente corretto, ignorando la disperazione rispetto alla possibilità di essere intesi o meno. Quando ho avuto l’opportunità di parlare con Mohammad Rasoulof (attualmente in carcere, ndr), questi mi ha parlato senza giri di parole dell’impossibilità di confronto tra arte e popolazione da una parte, con le proprie aspirazioni di libertà e dignità, e il potere.
Come è entrato in contatto con il cinema iraniano? Qual è il suo rapporto con esso?
Un rapporto molto forte. Come giovane cinefilo, ero presente a Pesaro quando il cinema iraniano fu presentato in una delle sue prime manifestazioni pubbliche. In sala erano presenti – e già questo doveva aprirci gli occhi – i rappresentanti della rivoluzione islamica, che seguivano i registi ovunque, fin sul palco dove questi parlavano con il pubblico. In quei giorni scoprimmo cineasti come Amir Naderi, Mohsen Makhmalbaf, vedemmo le prime cose di Abbas Kiarostami. Nel corso degli anni abbiamo sviluppato un rapporto fortissimo con quest’ultimo e altri registi, ma lo spettro della repressione è sempre aleggiato. Ricordo il mio primo anno a Venezia alla Settimana della critica, quando presentammo ‘Drum’, l’opera prima di Keywan Karimi, assente in Laguna in quanto stava scontando una pena carceraria, condonatagli poi con grande tempismo propagandistico, in perfetta coincidenza con l’inizio del Festival del cinema iraniano.
Quale, invece, la sua esperienza sul posto?
In Iran sono stato ospite di ‘Cinéma Verité’ per due volte. Ho visto come funzionava questo doppio regime totalmente schizofrenico, diviso tra un’ufficialità completamente abbottonata e repressa e una vita vissuta letteralmente dietro le tendine, per il timore che il vicino potesse spiare, denunciare. Una situazione di grandissima frustrazione che può produrre la conclusione che non vi siano vie di scampo. Per fortuna questa rivoluzione ci racconta un’altra storia.
"L’Islam non è il nostro problema, è il sistema il nostro problema", si grida oggi in piazza a Teheran, facendo ulteriori, più aggiornate e precise distinzioni…
Certamente, ma un conto è che la distinzione venga dalla popolazione iraniana, altro conto è che arrivi da noi europei, con la nostra tradizione di pensiero liberale, repubblicano e laico che ci permette di dire questo. Non è un caso il ritardo con il quale ci siamo resi conto della sofferenza delle manifestazioni iraniane e del loro slancio, dovuto probabilmente al timore d’essere iscritti all’albo degli islamofobi, che ovviamente è un albo orrendo, inaccettabile. In Iran ci sono donne che non hanno alcuna intenzione di rinunciare al chador, eppure sostengono quelle che invece vogliono essere libere, dimostrando un grado di consapevolezza e di maturità politica superiore alla nostra percezione del tutto eurocentrica. Sono solo le donne iraniane, vittime di questa violentissima repressione assassina, che si possono permettere di fare distinzioni, di decidere tra cosa sia buono e cosa sia male, non certo noi. Devono decidere loro. E noi dobbiamo sostenerle.
Ci perdoni la retorica: cosa può fare il cinema per Taraseh Alidoosti, Jafar Panahi e ogni altra voce alzatasi a Teheran in nome della libertà, personale e di pensiero?
Bisogna essere schietti: con le canzoni non si fanno le rivoluzioni, lo diceva già Francesco Guccini. È vero, il cinema può consentirci di capire quel che sta accadendo, ma anche quando si tratti di cinema politico, la presa di posizione resta sempre artistica. La politica si fa con la politica, le rivoluzioni si fanno con le rivoluzioni. Ciò che possiamo fare noi, che ci relazioniamo alla produzione culturale di tanti paesi, è mantenere lo sguardo vigile e curioso, stare dalla parte di chi si batte per un domani migliore. A Locarno, negli anni abbiamo dato visibilità a cineasti coraggiosi come Shahram Mokri, in giuria, e a film che uscivano dalla produzione ufficiale. Credo dunque sia giunto il momento di mettere da parte ambiguità e incertezze, e dire che questo regime sta massacrando la gente. Bambini, donne, anziani, giovani, indiscriminatamente.
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Taraneh Alidoosti a Locarno nel 2006
"In segno di solidarietà con la lotta pacifica per la libertà e i diritti delle donne", anche il Festival di Cannes "estende il suo pieno sostegno" a Taraneh Alidoosti, sulla Croisette lo scorso maggio per promuovere ‘Leila’s Brothers’ di Saeed Roustayi.
Variety, nel frattempo, riporta le parole di Hana Makhmalbaf dal suo esilio londinese insieme al padre Moshen e alla madre Marzieh, anch’essi cineasti. "So che tutti coloro che girano film in Iran ne fanno una versione con, e una senza hijab, perché credono così fortemente nella rivoluzione da pensare che, una volta realizzatasi, ne avranno bisogno». Sottolineando il terribile rischio di un simile gesto, Kaveh Farnam dell’Associazione iraniana dei registi indipendenti conferma la versione di Makhmalbaf, fuggita da Teheran nel 2009 dopo un mandato di cattura emesso nei suoi confronti, seguito alla ‘prima’ veneziana del suo ‘Green Days’, film sulle proteste di quegli anni. "Il regime ha paura che nessuno abbia più paura", dice la regista: "Togliersi l’hijab è un gesto simbolicamente fortissimo. Le speranze che le proteste di oggi si traducano in un cambio di regime sono molto alte".
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Hana Makhmalbaf