laR+ L’intervista

Eugenio Finardi, anche ‘Euphonia Suite’ è musica ribelle

Una traccia unica minimalista, da ‘Voglio’ fino a ‘Extraterrestre’, e in mezzo ‘Soweto’, ‘La radio’, ‘Diesel’ e molto altro. Lunedì, showcase alla Rsi

‘È costruita in quel momento, senza pre-produzione, se non la scrittura alla vecchia, le note messe sul rigo’
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2 dicembre 2022
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«Dal momento che oggi la normalità è che le canzoni durino due minuti, farne una sola di un’ora e dieci si può chiamare ribellione. È un album che va un po’ in direzione ostinata e contraria, come diceva il buon Fabrizio». Eugenio Finardi pubblica ‘Euphonia Suite’, dove tutto – da ‘Voglio’ fino a ‘Extraterrestre’, e in mezzo ‘Soweto’, La radio’, ‘Diesel’ e molto di quel che si può chiedere al cantautore – è fisicamente un’unica traccia. Mirko Signorile al pianoforte e Raffaele Casarano al sassofono sono i due compagni di viaggio di un album che chiude un ciclo di songbook aperto nel 1990 da ‘La forza dell’amore’ – splendido greatest hits con i brani suonati ex-novo, ricco e virtuosissimo – e proseguito tre anni dopo con ‘Acustica’, un ritorno all’essenziale come gli anni suggerivano.

‘Euphonia’ è un ritorno ancor più alle origini, che tende al classico: «Qui non cè nulla di elettronico. ‘Acustica’ aveva una traccia midi sottostante che, potendo tornare indietro, oggi toglierei. In ‘Euphonia’ invece c’è l’abbandono, ci sono rallentati e accelerando, c’è la musica che si costruisce in quel momento, senza pre-produzione, se non la scrittura alla vecchia, le note messe sul rigo». Aspettando lo showcase alla Rsi di lunedì 5 dicembre allo Studio Molo, un po’ di ‘Euphonia’ è anche in queste pagine…

Domanda d’obbligo: dove, come, quando nasce ‘Euphonia’?

Durante il lockdown mi è capitato di seguire in tv la conferenza di un musicista neurologo che spiegava come l’ascolto di un pattern sonoro per più di 10-12 minuti avesse un effetto curativo sullo spirito. Questa cosa mi ha ricordato di quando a Chinatown entrai in uno di quei supermercatini cinesi, che in un angolo esponeva radici ginseng, altre erbe e dei cd; chiesi che tipo di musica fosse e il gestore mi rispose "healing music" (musica per guarire, ndr). Scoprii quel giorno che per gli antichi cinesi la musica non era un arte ma una medicina. Ascoltando la registrazione di un mio concerto con Raffaele Casarano e Mirko Signorile, l’ultimo prima che tutto si fermasse, ho provato a eliminare i parlati e ad ascoltare i brani in successione; ho capito che sarebbe stato possibile creare una suite che per un’ora e dieci minuti potesse riproporre quella sensazione di trascendenza, senza perdere il filo del discorso, producendo leggerezza, sollievo.

Hai dichiarato che in un album di questo tipo, scegliere un singolo sarebbe stato impossibile. Perché proprio ‘Katia’?

Prima di tutto perché è una canzone che mi piace tantissimo. E poi perché parla dell’inizio, del primo amore, quello puro, sognato, come Dante per Beatrice. Forse non è la forma di amore più alta, ma quella più pura, in quanto amore non consumato.

In ‘Euphonia’, tra i classici, ci sono ‘Le ragazze di Osaka’ e ‘Amore diverso’, dedicate a tua figlia Elettra. Rivista con gli occhi del 1983, ‘Amore diverso’ era avanti quarant’anni…

Anche quella è una canzone purissima. Tempo fa ho ritrovato la registrazione di quando la canzone è nata: la cantavo a mia figlia, accompagnandomi con un Casiotone, una tastierina che aveva due note sole di polifonia (quella di ‘Da da da’, 1981, del gruppo tedesco Trio, ndr). Quella batteria elettronica molto basilare si ascolta nell’incipit del pezzo. Nella cassetta, in sottofondo, si sente la voce di mia figlia che gorgoglia come gorgogliano i bimbi appena nati, e sopra ci sono le mie parole non ancora definitive. Io gliela canto, lei si rilassa e intanto la canzone sta nascendo.

Tra le immancabili di ‘Euphonia’ c’è ‘Dolce Italia’, un parallelo che parte da Boston dove nevica e arriva agli Stati Uniti tutti. Trentacinque anni dopo, l’Italia è ancora dolce come la descrivevi?

È dolce come tutte le realtà locali. A parte alcuni episodi patologici, l’Italia è un Paese straordinario fatto di tante capitali: se ci pensi, Milano è una capitale, anche Brescia, Torino, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. In Italia ogni città ha la sua reggia; posti come Urbino, dove in mezzo a colline sbuca questo Palazzo Ducale meraviglioso, con il teatro giusto davanti. L’Italia è un paese magico nel locale, e anche un popolo straordinario, generoso, accogliente, divertente e un po’ anarchico, e ci vuole. Ma lo Stato è sempre stato in uno stato disastroso (ride, ndr), consentitemi tutte le ripetizioni. Basta guardare ‘Report’…

"Vorrei metterli su di un Jumbo e poi fargliela vedere / Quell’America senza gioia, sempre in vendita come una t****". In questa nuova versione, sugli Stati Uniti hai abbassato i toni: quell’America senza gioia adesso è "sempre in vendita ed in paranoia"…

Sì, è in paranoia ed è ben peggio. La preferivo quando era puro capitalismo che non questo neo-fondamentalismo che nemmeno si può dire protestante, perché si tratta di sette, portatrici di follie; metà dell’America è in preda a un delirio che da noi in Europa non potrebbe attecchire, perché siamo troppo esperti, troppo ironici. Qui c’è umanità, nell’Europa del sud ancor di più, e ci metto anche il Ticino, che è al di qua delle Alpi. Mia figlia è a Barcellona, una città straordinaria, non una metropoli come New York, ma con meno differenze sociali, con una bellezza diffusa, una città moderna, accogliente, liberale. Trovo che l’Europa sia cresciuta molto meglio. Il trumpismo, evidentemente cosa latente, è stato un evento veramente nefasto, uno di quelli che rimarrà nella storia con tutta la sua tragicità.

Chiudo con due tributi presenti in ‘Euphonia’. Il primo: ‘Oceani di silenzio’ di Franco Battiato, un altro ribelle…

Ho conosciuto Franco nel 1972, molto prima che suonasse in ‘Saluteremo il signor padrone’ (da ‘Non gettate alcun oggetto dai finestrini’, 1975, album d’esordio di Finardi), era una figura importante di quegli anni. L’ho visto attraversare tutte le fasi della sperimentazione, ho avuto la fortuna di essere nella scuderia di Angelo Carrara, produttore e manager molto bravo, ho assistito alla nascita di ‘L’era del cinghiale bianco’, ‘Patriots’, ‘La voce del padrone’, ‘Mondi lontanissimi’. Ne ho visto il cambiamento umano, personale. Il Battiato di ‘Fetus’, con la fama, divenne molto più simpatico, affabile, molto meno stronzo, cosa che a volte la fama provoca. Adorabile, generoso, un vero maestro.

Il secondo è un filo sospeso tra ‘La forza dell’amore’, dove appare per la prima volta in duetto con il suo autore, e questo disco: ‘Una notte in Italia’ di Ivano Fossati…

Io l’ho scritto a Ivano: la sua canzone, come si sente anche in ‘Euphonia’, non riesco a cantarla senza commuovermi; in questo disco si sente, mi viene il groppo in gola e a un certo punto la voce mi manca. E non succede con tutte le strofe, ma con due o tre particolari passaggi che non dicono nulla di speciale rispetto al resto, ma che mi toccano così tanto che se adesso te li recitassi mi commuoverei di nuovo. E non è una canzone in cui l’autore ti parla della mamma morta: quindi, perché mai "un pallone da toccare col piede nel vento che tocca il mare" mi deve commuovere fino a tal punto? È un mistero e non voglio nemmeno che Ivano mi spieghi cosa vuole dire per lui, perché ciò che mi accade è cosa mia, purissima e vera. Mettiamola così: siccome mi fa piangere, ho il diritto di cantarla.