laR+ L'intervista

L’esplosivo Krzysztof Urbański

Nuovo direttore ospite principale dell’Osi, domani al Lac: ‘L’Eroica non fu scritta con penna e inchiostro, ma con la dinamite’

In programma la Sinfonia n.3 di Ludwig van Beethoven e il Secondo concerto per pianoforte di Fryderyk Chopin, in replica domenica alla Tonhalle di Zurigo
(Marco Borggreve)
9 novembre 2022
|

«È la composizione più scioccante di sempre. Dimentichiamoci per un attimo di tutto quello che è venuto dopo, e immaginiamoci nella sera in cui debuttò: nel 1804, il pubblico non poteva conoscere Brahms e Chaikovski, che nemmeno erano nati; immaginiamo di vivere in un mondo in cui esistono soltanto Haydn, Mozart, qualche altro compositore meno importante e nient’altro; immaginiamo di entrare in questa sala, probabilmente vestiti in modo elegante, parte di quell’élite cui era data la possibilità di assistere a un’anteprima così importante; e ci si immagini il sentire questa cosa…». Krzysztof Urbański si alza, e sul pianoforte verticale nel camerino della Rsi dedicato ai direttori d’orchestra deposita con la forza del defunto Jerry Lee Lewis, più che con quella di un pianista classico, grandiose dissonanze. «L’Eroica non fu scritta con penna e inchiostro, ma con la dinamite. Dopo avere sentito una cosa così, sono certo che tutti abbiano pensato che Beethoven fosse un folle…».

Krzysztof Urbański è il nuovo direttore ospite principale dell’Orchestra della Svizzera italiana. Per ‘Osi al Lac’ di domani, giovedì 10 novembre, il 40enne polacco si confronta con la Sinfonia Eroica di Ludwig van Beethoven e con il Secondo concerto per pianoforte di Fryderyk Chopin, avendo come solista il pianista americano Garrick Ohlsson. «Dopo l’Università della Musica Fryderyk Chopin di Varsavia divenni assistente al direttore d’orchestra; al primo che si ammalò, venne per me l’occasione di dirigere per la prima volta un’orchestra di professionisti: il solista fu Garrick Ohlsson. Lo fu anche per il mio primo concerto al di fuori della Polonia, a Gothenburg in Svezia, e per il mio primo con la Indianapolis Symphony Orchestra. Per questa occasione, chi altri avrei potuto chiamare?...

Krzysztof Urbański, dirigere non è stata la sua prima scelta: le andrebbe di ricordarci i suoi tentativi come chitarrista?

Suonare la chitarra non era esattamente un’aspirazione. Volevo studiare musica e non avevo nessun musicista in famiglia. In casa tutti mi dicevano "suona la chitarra, è un bellissimo strumento", così tentai d’iscrivermi alla scuola di musica scegliendo quello strumento, ma non passai l’esame di ammissione. Il mio vicino di casa, che già frequentava quella scuola, mi segnalò un posto vacante nella classe di corno; mi dissi che avrei potuto provarci, e che una volta dentro sarei potuto passare dal corno alla chitarra. Ma del corno francese alla fine m’innamorai, studiandolo per tanti anni prima di dedicarmi alla direzione.

Nemmeno i suoi gusti musicali, agli inizi, erano prettamente classici: se le dico ‘New Kids on The Block’?

(Ride, ndr) È la band della mia infanzia. In Polonia, negli anni 90, c’era anche il loro cartone animato. Fu la prima boy band, poi sarebbero arrivati i Take That e i Backstreet Boys. Avevo dieci, undici anni, cosa avrei potuto ascoltare se non ‘Step By Step’, ‘Tonight’…

Poi arrivò Michael Jackson…

Sì, poi mi rapì Michael Jackson. È buffo, sono partito dal pop per poi scoprire la musica classica. Forse si deve al fatto che, mi ripeto, nella mia intera, numerosa famiglia non c’era un solo musicista che potesse dirmi nulla sulla musica classica, tanto che quando scoprii Beethoven pensai che sarei morto di felicità.

Come lo scoprì, Beethoven?

Per puro caso. Alla fine del primo anno come studente di corno, quale premio per i miei buoni risultati mi fu regalata la musicassetta di ‘Immortal Beloved’, colonna sonora di un bellissimo film su Beethoven per il quale misero insieme alcune parti della sua musica. La ascoltai per due anni almeno. Ricordo che a quel tempo, non avendo alcun archivio in casa, registravo la musica dalla radio. Un giorno, anche qui per puro caso, registrai i primi cinque minuti del Don Juan di Richard Strauss, poi la cassetta finì; nessuno alla radio aveva annunciato la composizione, dunque non sapevo di cosa si trattasse; andai a scuola e chiesi all’insegnante di storia della musica. Fu così che scoprii Richard Strauss. In quei giorni comperai anche il mio primo lettore cd e iniziai a spendere tutto quello che avevo in cd: scoprii Stravinskij, ‘La sagra della primavera’ fu una religione per me, e tutta la mia attenzione si spostò sulla musica classica, nella quale trovai un universo di colori, di sapori che nemmeno sapevo esistessero. Dopo avere scoperto Beethoven e Strauss, tutta la mia attenzione si concentrò sull’orchestra, la cosa migliore al mondo. Ironia della sorte, dopo tanti anni di totale devozione alla musica classica, durante la pandemia sono tornato al pop e ora ascolto solo quello. La classica la ascolto quando lavoro, perché voglio dividere la mia vita professionale da quella personale. Credo sia più ‘igienico’ per il mio stato mentale trovare un buon balance, e il pop raggiunge livelli altissimi, ha geni assoluti.

Un nome?

Billie Eilish, la sua creatività è sbalorditiva.

Con l’annuncio del suo arrivo, la mente di molti è andata a ‘Star Wars’. Il Lac non ha dimenticato il suo omaggio a John Williams. In quell’occasione, lei disse che arriverà il giorno in cui Williams verrà affiancato a qualunque altro compositore classico…

C’è qualcuno su questa terra che non riconosce la musica di ‘Star Wars’? Basta un minuto, bastano un paio di battute, dall’Europa al Giappone, fino all’Artico, ammesso che lì vi sia qualcuno al quale chiedere... Ricordo il mio primo ascolto di quella colonna sonora: ogni volta che sento dire che John Williams è ‘solo’ musica da film, credo che potrei uccidere. È, ovviamente, una battuta. Auguro a Williams di vivere altri duecento anni almeno e di scrivere tanto altro, ma al momento è un 90enne e, inevitabilmente, un giorno smetterà di scrivere musica. Quel giorno la sua opera acquisirà ancor più valore. La annoverano nel pop, ma i due album con le filarmoniche di Berlino e Vienna, entrambi registrati per la Deutsche Grammophon, sono un segnale per il mondo intero della certezza di trovarci di fronte a un genio.

A soli quarant’anni, lei ha diretto orchestre sinfoniche in tutto il mondo: cosa porta con sé da quelle esperienze?

Di ognuna di queste orchestre amo qualcosa. La professionalità dei musicisti giapponesi, per esempio, la sinfonica di Tokio è tecnicamente impeccabile, silenziosa, a volte troppo. Diversa è quella statunitense, assolutamente professionale ma dai tempi di prova limitati, cosa che rende difficile creare legami. In Germania, invece, sono ‘viziati’ perché dispongono di tanto tempo per provare: magari la prima può essere un disastro, ma la seconda prova è già la perfezione. Dovessi creare l’orchestra dei miei sogni, si tratterebbe di raccogliere le cose migliori di tutte quelle dirette, ed è impossibile. Scegliendo troppa professionalità e tranquillità, e disciplina, probabilmente perderei l’interazione umana, comunque necessaria. Ecco, a questo proposito definirei l’Osi un blend di differenti virtù, dalle giuste proporzioni. I suoi musicisti mi danno gioia, suonano splendidamente, il loro approccio è superprofessionale, ma allo stesso tempo sono mentalmente aperti. È molto facile spiegare loro quello che chiedo, a volte nemmeno devo farlo, lo sanno già. Amo essere qui, sento davvero di essere a casa. E non per la vicinanza con Varsavia.