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Quella violenza che non guardiamo

Spesso le persone non intervengono quando assistono a un’aggressione, sia essa reale o virtuale. Perché? Una neuroscienziata prova a spiegarcelo.

Rosalba Morese (R.M)
7 ottobre 2022
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‘Pestato a sangue sotto gli occhi dei passanti immobili’. Abbiamo letto titoli simili centinaia di volte – quest’estate, ad esempio, nel caso della feroce uccisione di un ambulante nigeriano a Civitanova Marche – magari col corredo d’un video truce per fomentare la nostra indignazione: com’è possibile che nessuno sia intervenuto? Che razza di mondo stiamo diventando? Se però succede così spesso che gli spettatori d’una violenza pubblica non intervengano, prima di sentirci migliori di loro dovremmo chiederci cosa capita nelle loro teste. È un po’ quello che cercano di fare le neuroscienze sociali, il cui scopo è esplorare i correlati neurofisiologici dei nostri comportamenti davanti al prossimo.

L’effetto-spettatore

Scopriamo allora che quell’indifferenza – il cosiddetto ‘bystander effect’ o effetto-spettatore – non è del tutto contro natura, anzi: «Quando assistiamo a episodi di violenza in generale – ad esempio bullismo, violenza di genere e altro – o anche quando semplicemente vediamo persone in difficoltà in un contesto pubblico, come un anziano che inciampa e si fa male, il nostro cervello si prepara meno a un comportamento di aiuto se registra la presenza di più persone. In altre parole, più ampia è la presenza di altri spettatori, più il cervello ‘disattiva’ le aree che predispongono all’intervento. Sicché ci sentiamo meno responsabili e tendiamo a non agire, come se ci sentissimo estranei a quel che accade», spiega la psicologa e neuroscienziata dell’Università della Svizzera italiana Rosalba Morese. Il problema, insomma, è ‘La violenza che non guardiamo’, per dirla col bel titolo di un convegno che si terrà domani all’Università della Svizzera italiana (vedi accanto). Una violenza che può essere tanto fisica quanto psicologica.

Disattivazioni...

Come è facile intuire, questo tipo di disattivazione entra in gioco anche in contesti virtuali quali i social network, in cui il fatto di trovarsi in rete con un numero spropositato di sconosciuti può inibire, ad esempio, un nostro intervento per fermare la messa alla berlina di qualcuno o la pubblicazione delle sue nudità. Un dato importante, questo, in una società in cui le aggressioni ‘di strada’ paiono diminuire – pur con qualche sbalzo ed eccezione – mentre aumentano proprio quelle digitali, in particolare il cyberbullismo.

«Anche in questo caso è decisiva la dimensione del gruppo. Saperlo ci permette di essere più consapevoli di quel che ci succede in queste situazioni», osserva Morese. La ricerca delle neuroscienze sociali mira appunto a questo: «Capire meglio le dinamiche sottostanti a certi fenomeni, per individuare gli strumenti e le capacità da allenare per divenire una comunità più attenta».

... e riattivazioni

Per ovviare in particolare a questo ‘effetto branco’ così paradossale – in cui essere insieme ad altri ci spinge a isolarci, invece che a compiere quell’azione che pure sappiamo giusta – «è fondamentale apprendere a non guardare solo a quel che gli altri fanno, col rischio di non intervenire perché non lo sta facendo nessun altro» (peraltro, se seguiamo quel che fanno gli altri l’effetto può essere l’inazione, ma anche il suo opposto: il linciaggio). Secondo Morese questa sorta di abilitazione emotiva e cognitiva passa dal «riappropriarsi della propria responsabilità individuale, anzitutto allenando l’empatia, il mettersi nei panni degli altri. Molti studi sul cyberbullismo lo dimostrano: promuovere le capacità empatiche può inibire o ridurre il comportamento aggressivo di chi mette in atto comportamenti di bullismo e dei suoi ‘complici’ e può aiutarli a capire – e sentire – quanto stia male la loro vittima».

L’empatia, nota bene, non è semplicemente una risorsa naturale, qualcosa che o ce l’hai oppure no, bensì «una capacità che richiede esercizio e sensibilizzazione all’interno della propria cultura di riferimento, in tutti i contesti, dall’educazione ai media, che a loro volta partecipano al dibattito pubblico contribuendo a impostare la riflessione su determinati episodi e prospettive sociali». È un lavoro lungo, naturalmente, nei casi più fortunati agevolato dall’esperienza in famiglia, ma non solo: «L’educazione affettiva nell’ambiente familiare è importante, ma sviluppiamo certe abilità anche imparandole dai contesti sociali, nei quali i livelli di empatia possono cambiare nel tempo».

Lo smartphone e la nonna

Ma come e perché questi livelli di empatia cambiano? Viene naturale chiedersi se le tecnologie non contribuiscano a desensibilizzare le persone, come da vulgata cara a svariati osservatori. La risposta di Morese è più articolata: «Il nostro è un cervello sociale che si è evoluto stando con le persone, interagendo con loro, parlandoci, osservandone le espressioni. Se le tecnologie si traducono in un maggiore isolamento relazionale, allora è chiaro che certe capacità potrebbero essere intaccate, se non si dedica loro il tempo necessario». D’altro canto, il ragazzino che vediamo ingobbito sul suo smartphone e che ci fa pensare "guarda come sono soli, ’sti giovani d’oggi" potrebbe esser lì che chatta affettuosamente con la nonna ricoverata in ospedale: «Le tecnologie possono agire anche in modo inverso», riconosce Morese, «permettendo al nostro cervello sociale di connettersi con quello degli altri, come abbiamo visto succedere durante i periodi di isolamento dovuti alla pandemia. Su questo, però, le neuroscienze sanno ancora poco: i dati sono contrastanti e la ricerca è ancora giovane. D’altronde la tecnologia è ormai fondamentale e ci appartiene, dunque ben venga, anche se dobbiamo capire come trarne il miglior vantaggio per il nostro benessere personale e sociale».

Le vittime, dall’inizio

Infine – ma da un punto di vista sociale e culturale sarebbe meglio dire: all’inizio – ci sono le vittime, che spesso finiscono per chiedersi "perché sono stato aggredito? Ho sbagliato qualcosa?". Devono elaborare traumi, vergogne e sensi di colpa (ne avevamo parlato su ‘laRegione’ del 2 ottobre 2021): «Qui è fondamentale il supporto sociale. Il gruppo, la comunità, la società non devono lasciare sola la vittima. Il dolore psicologico che può provare, in un contesto reale o virtuale, perché esclusa o isolata è definito dolore sociale. Le neuroscienze hanno dimostrato che durante questo tipo di esperienza il cervello ‘recluta’ i circuiti cerebrali legati al dolore fisico. Evidenze neuroscientifiche dimostrano che il supporto di amici, familiari, colleghi di lavoro e della comunità possono fare la differenza nel diminuire la sofferenza».

È su questo aspetto che si innesta anche la riflessione della cosiddetta ‘giustizia riparativa’ – anch’essa al centro del convegno di domani – che cerca di stimolare forme di intervento non alternative, ma complementari al processo penale. Ad esempio l’incontro tra il reo e la vittima, non per inseguire il perdono, bensì per responsabilizzare il primo e consentire alla seconda di capire, elaborare e per quanto possibile risanare certi traumi. «Lo scopo», conclude Morese, «è sempre quello: attivare l’empatia e basare sul dialogo e l’incontro anche la lotta al dolore sociale».

IL CONVEGNO

All’Usi per capire, riconoscere, aiutare

"Siamo attorniati in ogni ambito da molteplici espressioni di violenza. Forse per difenderci, per non esserne coinvolti o feriti, o semplicemente per non sentirci complici passivi a volte la ignoriamo, la misconosciamo, la giustifichiamo". Parte da questa premessa l’evento organizzato domani all’Usi (dalle 8 e mezza alle 17 all’Aula Magna del Campus Ovest). Obiettivo, come da programma: "Interrogarci sulla nostra capacità di sostenerci reciprocamente nel riconoscere la violenza in tutte le sue forme, per intercettarla e per offrire sostegno alle persone che ci circondano, come familiari, amicizie, colleghe e colleghi o conoscenti che la agiscono o la subiscono. Spesso infatti desidereremmo poter fermare la violenza, ma non sappiamo come e se agire. Un prezioso potenziale di risorse resta così inoperante". Il convegno intreccia le competenze dell’istituto di Diritto e di quello di Argomentazione, Linguistica e Semiotica, aprendosi anche a diversi rappresentanti del mondo della giustizia, della sanità, della socialità e della prevenzione, per proporre un approccio al tema seriamente multidisciplinare. Tra i numerosi relatori e coordinatori dei diversi panel, oltre a Morese, ci saranno Bruno Balestra, ex procuratore generale e membro del Gruppo Giustizia Riparativa Ticino, il presidente della Corte dei reclami penali al Tribunale penale federale Roy Garré, il giornalista informatico Paolo Attivissimo e la professoressa straordinaria di Argomentazione della facoltà di Comunicazione, cultura e società dell’Usi Sara Greco.