Messa in scena perfetta per un leader militarmente alle strette, dopo aver sperato di occupare la capitale nemica con un blitz di una manciata di giorni
Nel 2014, al momento dell’annessione della Crimea alla Russia, Vladimir Putin distribuì ai suoi principali collaboratori alcuni scritti di Ivan Il’in, il filosofo morto dimenticato in Svizzera e i cui resti il neo-zar aveva deciso di riportare e omaggiare in patria. Il pensatore più citato da Putin è colui che si era scagliato contro "il fallimento di Dio", aveva lodato Mussolini e Hitler, teorizzato il passaggio della sua patria "simbolo di spiritualità" verso "una forma superiore di fascismo", teorico dell’Eurasia come civiltà alternativa e superiore rispetto "alla minaccia spirituale ed esistenziale rappresentata dall’Occidente". Putin deve aver molto apprezzato il fatto che il suo filosofo di riferimento "abbia valutato l’assenza dello Stato di diritto come una virtù russa", sintetizza efficacemente Timothy Snyder, apprezzato storico delle tragedie caucasiche.
Dunque, poco importa all’autocrate di Mosca se grotteschi sono stati i referendum con cui quattro regioni del Donbass sono state integrate nella madre Russia, esito scontato, percentuali stellari, e scintillante parata imperiale. Perfetto per un leader messo militarmente alle strette dopo aver sperato di occupare la capitale nemica con un blitz di una manciata di giorni. E poco importa se le auto-proclamate annessioni riguardino in realtà degli "Oblast" in buona parte riconquistati dalla controffensiva di Kiev; se i votanti erano sollecitati a esprimersi accompagnati casa per casa da uomini armati; se le schede venivano raccolte in urne trasparenti; se centinaia di migliaia di abitanti di quelle aree erano già fuggiti abbandonando le regioni orientali; se milioni hanno votato per la "storica svolta" stando in Russia; se le truppe di occupazione non sono state certo accolte da folle entusiaste dopo che le loro case erano state distrutte; e se gli "osservatori internazionali" (di certo neutrali) erano stati invitati dai capi scissionisti. Cristallino esempio di democrazia in salsa putiniana.
Così come la falsa narrazione della minoranza russa che stava correndo il pericolo dell’estinzione, quando in realtà negli ultimi due-tre anni le vittime della guerra civile, iniziata dopo l’illegale autoproclamazione delle repubbliche, erano state poche decine; e l’altrettanto spiccia spiegazione che già c’erano stati 14’000 morti, senza mai specificare che le vittime si contavano su entrambi i fronti. Da otto anni soldati russi camuffati e con divise anonime (i cosiddetti "omini verdi") presidiavano le regioni contese, con un po’ di milizie al seguito tipo la Wagner, i paramilitari finanziati da Mosca. Paramilitari di estrema destra dai metodi spicci. Un loro ex comandante, Marat Gabidullin, che alla fine scrive nella sua biografia: "Lasciavo il Donbass con un sentimento di frustrazione e delusione. Mi ero reso conto in fretta quanto fosse falsa e illusoria la presunta nobile causa che sosteneva di difendere gli interessi della Russia di fronte alle ingerenze di una potenza straniera ostile". Sicuramente un prezzolato da Nato ed Europa, per i sostenitori della "verità ufficiale". E che dire del comandante ceceno Razman Kadyrov, il feroce alleato di Putin nella sanguinosa strage della sua gente, che oggi chiede all’amico di Mosca di sfoderare le armi nucleari tattiche ("a bassa intensità", sic). Uno messo a regnare sulle macerie insanguinate di Grozny. Con ogni mezzo, ha del resto insistito Putin. Contro l’Occidente definito "demoniaco".