Il popolo ha affossato la stessa Costituzione che aveva chiesto a gran voce. Il presidente Boric incassa con stile ribadendo i pregi delle democrazie
Non tutti i "no" sono uguali. Il 5 ottobre del 1988, la sorprendente vittoria del "No" interruppe la dittatura di Augusto Pinochet. Sembrava un pro forma, uno di quei referendum scontati, pilotati – come in larga parte, in effetti, era stato – eppure non bastò al Caudillo per garantirsi altri otto anni di potere. Oltre tre decenni e una mezza rivoluzione più tardi, un altro "No" sulle schede dei cileni ha mantenuto in vita proprio la Costituzione scritta da Pinochet bloccando sul nascere quella che forse sarebbe stata la Carta dei diritti per certi versi più avanzata del mondo. Talmente avanzata che oltre il 60 per cento dei votanti non se l’è sentita di adottarla. Eppure, nemmeno due anni fa, erano stati molti di più – quasi l’ottanta per cento – quelli che avevano chiesto a gran voce una Costituzione in grado di seppellire quella firmata Pinochet.
Cosa è andato storto? Forse è bene ricordare una frase di Luis Sepúlveda, uno degli uomini che più ha incarnato il Cile ribelle, sognatore e – suo malgrado – fuggitivo che ha dovuto combattere prima Pinochet e poi il suo ingombrante fantasma: "La libertà è uno stato di grazia e si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla".
Come se i cileni, stanchi dell’eterna rincorsa verso qualcosa che li avrebbe resi all’improvviso svuotati dell’obiettivo di una vita, si fossero ribellati a loro stessi, incapaci di trovarsi una nuova meta, nuove ambizioni.
Una scheda entra nell’urna (Keystone)
Compiere quell’ultimo passo avrebbe davvero voluto dire andare oltre. E basta esserci stati anche una sola volta, in Cile, per capire, che quel passo sarebbe stato fatto solo sulla carta e sulla Carta, ma che nella vita di tutti i giorni quel capitolo non è chiuso. Un esempio per tutti: la Costituzione garantiva finalmente un riconoscimento dei pieni diritti ai popoli indigeni. E la maggioranza dei popoli indigeni ha votato contro. Come in quelle lettere d’amore strabordanti di cose scritte da qualcuno a cui era rimasto troppo da dire per troppo tempo, la nuova Costituzione cilena era diventata un’opera affetta da gigantismo che, nella smania di toccare ogni aspetto della vita pubblica è arrivata a contenere eccessi fino a garantire uno status legale perfino ai ghiacciai.
Composta da ben 388 articoli (quella svizzera ne ha 197, quella francese 89, quella americana 7, con 77 emendamenti), 57 disposizioni transitorie e ben 178 pagine, la Costituzione era riuscita nell’impresa di tutelare i cileni che ci avrebbero vissuto dentro, ma non quelli che sarebbero andati a votarli, che poi erano gli stessi.
Troppo lunga, troppo complicata, troppo piena di cose. Chi voleva smontarla, come la destra ancora legata a Pinochet o perlomeno quella che ha solo da perderci in una ridistribuzione dei diritti e dei doveri, ha avuto gioco facile, perché come sempre più spesso accade in questo Stato globale che pare ormai basato sugli emoticon, lo slogan facile batte il ragionamento. A peggiorare le cose è il bilancino con cui ognuno pesa i propri interessi e quelli degli altri, arrivando al paradosso di negarsi un vantaggio e un privilegio pur di non darne ad altri.
Una maschera di Pinochet durante le proteste del 2019 (Keystone)
È il paradosso di una società con forti spinte innovatrici che però ha trovato nel conservatorismo le proprie certezze, in cui la libertà – per tornare a Sepúlveda – è uno stato mentale, un’azione da iniziare, compiere e mai finire, perché quando finisce non c’è più, ti scappa di mano. Il peso di questa antinomia irrisolvibile, di questi due modi di essere che dovrebbero escludersi eppure si nutrono l’uno con l’altro, lo devono portare ancora una volta le donne. La nuova Costituzione avrebbe garantito loro un maggiore accesso ai ruoli istituzionali, non solo in politica, ma in tutte le dirigenze delle imprese statali e parastatali (per legge il 50% dei posti sarebbe spettato a loro); a questo aggiungiamo, tra i tanti diritti, quello all’aborto.
Era una Costituzione fortemente ambientalista, che nel voler proteggere le proprie riserve idriche e le proprie ricchezze dallo sfruttamento selvaggio aveva messo talmente tanti paletti da rendere il tutto cervellotico: l’aborto, i ghiacciai, gli indigeni. Ognuno poteva trovare un argomento da rifiutare. Sugli indigeni, soprattutto, si era creato un enorme equivoco: certo, sono solo il 13 per cento della popolazione e avrebbero avuto indubbi vantaggi (ad esempio la restituzione delle terre ancestrali), ma gli effetti di queste mosse incrociate hanno spaventato tutti, indigeni compresi (quasi in toto, ad esempio, sono contrari all’aborto). Meglio un altro "no" e buttare la palla avanti.
"Il Cile è uno stato sociale e democratico, fondato sullo stato di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico", era il preambolo della Costituzione che i cileni hanno chiesto a gran voce per poi buttarla dalla finestra. Stonava a molti, a destra, "lo stato sociale", stonava a troppi quel "plurinazionale" che dava adito ad ambiguità sull’unità del Paese. Mettete tutti gli ingredienti preferiti di milioni di persone nello stesso piatto e quel piatto diventerà immangiabile. Il cuoco maldestro della nuova Costituzione che mai sarà, il presidente Gabriel Boric, il primo di sinistra dopo Salvador Allende, ha però voluto far subito capire di aver imparato la lezione con un discorso che è stato un inno alla democrazia: "I desideri di cambiamento e dignità esigono dalle nostre istituzioni e dalla politica che si lavori con ancor più impegno, dialogo, rispetto e amore, fino ad arrivare a una proposta in cui tutti noi possiamo rispecchiarci. È lì che stiamo andando. Viva la democrazia e viva il Cile!".
Un abbraccio tra due sostenitori del "Sì"
La Costituzione, con un’indigena a capo dell’Assemblea Costituente, era forse andata troppo in là, sbandando a sinistra persino per la sinistra cilena. Boric, in seguito alla sconfitta referendaria ha dovuto mettere mano al governo, con un rimpasto necessario, inevitabile. Messaggi che la politica manda a sé stessa, niente di più. Allo stesso modo ha voluto ribadire che non c’è niente di meglio della democrazia per rispondere alla democrazia (ha votato quasi l’89 per cento degli aventi diritto), dopo un atto potente come erano state le proteste del 2019, una ribellione che portava con sé un desiderio di regole finalmente giuste, in cui sentirsi tutti dentro lo stesso perimetro: la Costituzione monstre è andata oltre, allargando il campo fino a non vederlo più, fino a spaventare.
Anche per questo l’immagine spensierata e dissacrante di un bambino vestito da supereroe, in sella a una bicicletta, che incurante della gravità e della solennità del momento, si è messo a girare intorno a Boric durante uno dei discorsi seguiti all’ultimo "no" dei cileni è sembrato il modo migliore per ripartire. Un piccolo inno all’innocenza per anni perduta in un Paese che sta riscoprendo il gusto della democrazia a tal punto da rifiutarne un altro po’ pur di averne una che le somigli di più.
Il presidente Boric e il piccolo invasore-supereroe (Keystone)