laR+ L'intervista

Marco Solari: ‘Lascio un Festival più forte e in crescita’

La decisione è presa, il 76esimo sarà il suo ultimo da presidente: ‘Ma ora nessuna retrospettiva, ho semplicemente annunciato i prossimi passi’

Marco Solari, sabato scorso l’annuncio
(Locarno Film Festival)
16 agosto 2022
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Aveva detto che quest’anno non avrebbe lasciato e così è stato. Lascerà il prossimo. «Esatto, non racconto mai bugie». Marco Solari si è appena congedato dalle emozioni del GranRex, da lui stesso aperte con il discorso più breve della storia del Festival, ma che racchiudeva un atto di fede: "Free jury, free jurors in free Festival!". Dal suo ufficio al PalaCinema, tra pardi di forme, materiali ed epoche diverse in bella mostra, la storia del Festival transiterà ancora per un anno. Come comunicato nella mattinata di sabato alla Rsi, l’attuale presidente lascerà nel 2024, a 76esimo concluso. «Non voglio fare troppa retrospettiva», mette subito in chiaro. «Mancano ancora un anno e tre quarti. L’intervista che facciamo qui oggi potrebbe essere rifatta nel 2024. Oggi ho semplicemente annunciato i prossimi passi».

Marco Solari, conoscerà già la domanda…

Sì. La prossima edizione è ancora sotto la mia responsabilità. Da martedì (oggi, ndr) inizia la prossima edizione del Locarno Film Festival, una preparazione che dura un anno e del quale dovrò rendere conto all’assemblea della primavera del 2024. Che poi noi, all’interno, si cominci a dare più peso alla direzione operativa, con Rapahël Brunschwig, è normale. Io, lentamente, devo cominciare a prendere distanza. In questo anno di tempo, il Consiglio di amministrazione dovrà fare riflessioni approfondite e dire come si continuerà.

Ha già dato indicazioni in merito?

Questo dipende veramente dal Consiglio direttivo e poi da quello d’amministrazione. Di certo, questo sarà un anno di transizione, in cui io come Caronte, ma un po’ meno cattivo e senza picchiare con i remi (sorride, ndr), traghetterò verso il futuro questa meraviglia di Festival che esce ogni anno più forte. Attenzione però: ho dato oggi a Festival terminato (sabato, ndr) questa notizia per una questione di trasparenza e di lealtà, come ho sempre fatto, mettendo le cose sul tavolo. Ora c’è il tempo per realizzare questa transizione: ci sarà probabilmente la peculiarità di una presidenza entrante accompagnata da quella uscente, finché nell’assemblea del 2024, se Dio mi darà la salute, farò quello che fanno i patrizi bernesi: dopo aver servito, sparirò dagli schermi del Festival.

Corrono le voci, tra le quali quelle di un presidente meno presidente e ancor più delegante…

Le competenze del nuovo presidente saranno da definirsi. Il suo è un compito che cambia con il tempo. Il primo che conobbi fu Luciano Giudici, un presidente straordinario che ha difeso i valori fondamentali, liberali, ma non nel senso partitico: libertà dell’uomo, libertà di discussione, contro le pressioni incredibili in un Ticino di fine Sessanta-inizio Settanta, periferico, non certo aperto com’è oggi e con molte sensibilità di cui tener conto. Con un presidente come lui, alcuni direttori artistici hanno potuto spingere sull’acceleratore, portando a Locarno film che toccavano temi ancora abbastanza delicati come la nudità, l’erotismo, l’omosessualità. Giudici ha sempre protetto il Festival.

Poi il presidentissimo Raimondo Rezzonico, che ha vissuto i suoi vent’anni per il Festival, dando tutto quel che poteva. Ha dato al Festival la dimensione veramente mondiale. Il suo è stato un ottimismo contagioso, che ci ha portato David Streiff, Marco Müller. Poi Giuseppe Buffi, che il Festival l’ha fatto sognare l’espace d’un matin. Con lui ‘fu subito sera’, per dirla con Ungaretti. Io non credevo di fare il presidente. Buffi era stato nominato per un tempo sufficientemente lungo per il quale io avrei terminato la mia carriera come vicepresidente della Ringier, nel mondo affascinante dei giornali e dell’informazione. Sarei forse rimasto a Zurigo, come molti ticinesi.

Guardando indietro: che tipo di presidenza è stata la sua?

Inizialmente durissima, caratterizzata da una situazione ‘catastrofata’, operativamente e difficile finanziariamente. Ho dovuto concentrarmi completamente su questo compito, avendo chiesto di fare non il presidentissimo ma il Président directeur générale (Pdg), un presidente che doveva prendere decisioni anche operative. Questo mio ruolo, man mano che ho potuto disporre di direttori operativi, è venuto scemando. Cominciando da Doris Longoni, colei che era al corrente di tutto e mi ha facilitato l’entrata, e per conoscere il Festival servono tre anni almeno se non quattro, il tempo d’incontrare le persone, soppesare gli equilibri, sapere come agire. Marco Cacciamognaga mi ha tolto ogni problema amministrativo e Mario Timbal è stato il direttore operativo che ha preso iniziative importanti, che già andava in direzione di CEO. Rapahël è, sulla scia di Timbal, un CEO a tutti gli effetti, in questi ultimi anni è scivolato sempre più nella funzione di grande coordinatore e mi ha permesso di ricoprire il ruolo più specifico del presidente, che ho dovuto in un certo senso imparare. Ora c’è una struttura splendida, e anche questa edizione del Festival lo ha dimostrato.

È stato un Festival splendido anche dal punto di vista artistico, tutto ha funzionato. Le cifre sono decisamente migliori di quanto si pensasse. Certo, ancora un po’ indietro rispetto al 2019, ma comunque molto positive. C’è una squadra coesa, con le finanze a posto. In fin dei conti è quello che ho sempre desiderato. Ogni volta che mi è stato chiesto cosa avrei voluto lasciare, una sola risposta: consegnare un Festival che sia più forte di quando l’ho preso in mano, ma soprattutto un Festival che abbia un potenziale di sviluppo enorme.

Rapahël Brunschwig è dunque quella continuità che lei va cercando?

Sì. Ma Rapahël oggi c’è, si spera ci sia anche domani. Potrebbe ricevere un’offerta e dire "io ho dato abbastanza". Ricordo che guardai Mario Timbal negli occhi, il giorno che entrò nel mio ufficio, e gli dissi: "So cosa mi vieni a dire". Gli dissi anche che avrebbe fatto benissimo ad andare ad Arles (nel 2017, per assumere la direzione operativa della Fondazione culturale Luma, ndr), e che un giorno probabilmente sarebbe tornato. La mia profezia si è avverata. Con tutte le persone, già anche all’Ente ticinese per il turismo, ho sempre cercato di aiutarli a sviluppare la loro personalità perché potessero poi prendere il volo. È stato un compito sovente molto duro quello di formare, trasmettere, suggerire, arrabbiandosi di tanto in tanto, ma ne è valsa la pena.

E adesso come cambierà la sua giornata?

Doserò i miei interventi, ci vorrà autodisciplina così da lasciare al direttore operativo più libertà.

Il tutto, senza mai vedere troppi film…

Sì, è noto. Quest’anno però ho fatto un’eccezione. Sono un grande amante di Orson Welles, lo amo al di sopra di tutto e tutti, ma provo pari trasporto per Aleksander Sokurov e ho chiesto ai miei collaboratori d’inviarmi l’anteprima di ‘Fairytale’. Avevo già apprezzato enormemente ‘Arca russa’, quel piano sequenza di 96 minuti. Ho amato enormemente anche il suo ‘Faust’, che è uno di quei film che tornano sempre nella mia mente, trasportato agli ultimi, così come l’impressionante sua trilogia del potere...

La premiazione di quest’anno è stata politicamente molto forte: il prossimo presidente dovrà farsi garante di questa libertà d’espressione…

Il Festival è un luogo di libertà, dove non esiste censura e tanto meno deve esistere pressione da parte della politica o dell’economia. Questa è la linea rossa che nessuno può travalicare, perché è nell’interesse stesso dello sponsor e della politica che il Festival tragga la sua forza dalla sua libertà. Dunque un Festival libero, autonomo e per tradizione coraggioso. Un Festival sensibile alle urla di dolore, alle utopie e alle speranze, lo specchio di un’umanità che soffre, ma che sa sperare. Sono idealista? Per quanto di carattere fondamentalmente pragmatico, sì, resto idealista. Aver potuto trasmettere i valori nei quali credo è stato ed è un immenso privilegio.