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Quel nostro ‘piccolo’ difetto d’accoglienza

‘Interdit aux chiens et aux italiens’, film per famiglie che ha acceso lo schermo di Piazza Grande, storia che dialoga col passato migratorio (di tutti)

Alain Ughetto, regista, con Luigi e Cesira, ieri sera in Piazza Grande
(Keystone)
3 agosto 2022
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Dieci anni, sette di preparazione, scrittura e sviluppo, tre anni di produzione, rallentata – manco a dirlo – dal Covid. Sono i tempi di ‘Interdit aux chiens et aux italiens’, titolo che ‘omaggia’ uno dei peggiori prodotti dell’umanità, quel ‘Vietato ai cani e agli italiani’ affisso davanti a tanti esercizi commerciali di tante città europee. Una dicitura che gli italiani stessi un giorno sarebbero riusciti a sottocatalogare, quando nel Nord del boom economico apparvero interpretazioni quali ‘Non si affitta a napoletani’ (a dimostrazione della vecchia legge secondo la quale c’è sempre qualcuno più a sud di noi).

Prima dello scoppiettante ‘Bullet Train’, chiamato ad aprire questa sera Locarno75 col suo mix di arti marziali, armi e psicanalisi, una produzione italo-svizzera-belga-portoghese ha acceso ieri sera lo schermo della Piazza Grande, forte di una piccola, poetica, misurata e ispirata denuncia dell’umano (disumano) difetto d’accoglienza. Merito del francese Alain Ughetto – un César nel 1985 per ‘La Boule’, un European Film Award nel 2013 per ‘Jasmine’, storia d’amore nella Teheran di fine anni 70 – che in ‘Interdit aux chiens et aux italiens’ racconta la storia di una famiglia di migranti (i suoi antenati) spostatasi dal Piemonte in Francia attraverso le Alpi e attraverso un paio di guerre, in cerca di un futuro migliore. Una storia affidata alla stop-motion e al dialogo ‘umano-pupazzo’ con la nonna Cesira, dove l’umano è Ughetto in persona.

Declinazioni

«Un bel giorno mi sono reso conto di portare un nome italiano e di non sapere nulla del perché lo portassi. Nessuno mi aveva mai raccontato le mie origini, genitori e nonni non dicevano una sola parola della guerra. Forse ritenevano che non ne valesse la pena, forse consideravano il silenzio un modo per proteggerci, magari credendo di farci vivere una vita migliore della loro. Ho trovato tutto abbastanza intrigante e bizzarro». Così bizzarro, ci racconta Ughetto poche ore prima della proiezione, da spendere dieci anni della propria vita a ricostruire il proprio passato. Tutto è nato guardando una di quelle insegne un po’ infami: «La scritta ‘Vietato ai cani e agli italiani’ accoglieva i migranti italiani che arrivavano in Francia. Ma ve n’erano in Belgio, poi se ne sono trovate in Svizzera. A poco a poco la scritta si è declinata ai magrebini, agli ebrei…». Con Ughetto, a raccontare l’opera dal punto di vista produttivo, c’è Nicolas Burlet, coproduttore di parte svizzera: «Basta guardare negli archivi della Rsi – dice – e se ne trovano di assai più recenti della storia raccontata di Alain, e riportanti divieti dal contenuto molto vario».

Gnocchi, polenta e musica

‘Interdit aux chiens et aux italiens’ – vincitore all’Annecy International Animation Film Festival – era il Prefestival. In quanto film per famiglie, dotato della giusta leggerezza per trasmettere un concetto non esattamente leggero. Durante il film, moderatamente, si ride anche: «Mi sono rifatto istintivamente alla commedia italiana, che ha questa capacità di alleggerire le situazioni più terribili. A ‘Pane e cioccolato’, per esempio (il Manfredi tinto di biondo che esulta al gol della Nazionale italiana in un locale della Svizzera interna, ndr). Lì addirittura si ride di gusto, in un contesto terribile. Ma è importante che si rida, la risata è un veicolo importante».

Anche la musica è importante, se si aggiunge che a comporla è stato Nicola Piovani: «Un incontro magnifico. Cercavo un rimando a mia nonna, che quando arrivò in Francia non parlava una sola parola di francese, per poi rendersi conto un giorno di parlare soltanto francese. Nonostante questo, i suoi riferimenti culinari – gnocchi, polenta – erano rimasti italiani. Mi sono detto che per le musiche avrei dovuto trovare qualcuno che stava in Italia, che componesse la musica e restasse italiano. Con Nicola ci siamo intesi molto rapidamente sul da farsi, e quando abbiamo ricevuto le prime musiche, in sala montaggio abbiamo capito immediatamente quanto fossero superbe». Quanta italianità è ora in lei dopo questo film, Ughetto? «L’Italia era da sempre per me un Paese di cugini, di compagni di giochi, di gelati. Oggi che ho ritrovato le mie radici, è almeno la metà di me».

Le mani, la voce

Le mani non animate del film sono quelle di Ughetto. «È stato mio padre a trasmettermi tutto il sapere del lavorare con le mani, che sono quelle che uso nel mio lavoro». Le mani sono anche quelle dei lavoratori stranieri che in Svizzera e Francia hanno costruito strade e gallerie, e i riferimenti in questo senso non si contano. Di Ughetto conta – perché dialoga con nonna Cesira – anche la voce. E qui è Burlet a raccontare: «All’inizio era quella di un attore, ma giunti alla fine del film non abbiamo percepito verità in ciò che, pur professionalmente, quell’attore aveva detto. La storia era quella di Alain; suoi erano anche l’anima e il cuore, e per quanto la sua non sia la voce di un attore, ci ha restituito la verità, la forza del racconto».

Pure con le sue case-zucche, gli alberi-broccoli e i mattoni-zollette – e il delizioso scorrere di un Tour de France che un bel giorno diventa una parata militare, segnando il doloroso mutare degli eventi – ‘Interdit aux chiens et aux italiens’ non diventa mai favola. Almeno agli occhi di noi adulti. Chiude Burlet: «La testimonianza era importante. Sovente si parla d’immigrazione snocciolando solo le cifre. Tramite la storia della famiglia di Alain volevamo dimostrare che le persone attraversano le frontiere perché nella loro terra non hanno di cosa vivere, e vengono da noi sperando in una vita migliore. Volevamo dimostrare che dietro le cifre stanno persone che provano emozioni, persone che non sono numeri. Quelli servono alla politica per dire se si è a favore o contro».