Il nipote del grande intellettuale siciliano il 1° giugno a Bellinzona: ‘Senza il politicamente scorretto alla cultura non resta nulla’.
Aveva già parlato del nonno in almeno un libro, ma forse mai così in profondità come ne ‘Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile’ (Roma, Rogas edizioni, 2021). Fabrizio Catalano, nipote dell’intellettuale di Racalmuto, 7mila anime in provincia di Agrigento, lo ha scritto con Alfonso Amendola ed Ercole Giap Parini e mercoledì primo giugno lo racconta a Bellinzona, alle 18.30 in Biblioteca. L’incontro è parte del progetto ‘Dürrenmatt Sciascia 100. Un’umana commedia’, ideato nel 2021 dal Centre Dürrenmatt Neuchâtel (CDN) e dalla giornalista Sonja Riva, un lungo doppio ritratto dei due letterati accomunati da una data di nascita, il 1921, e molto altro, così come visto al Teatro Sociale lo scorso anno in ‘Mein Fritz, il mio Leo’, spettacolo con Margherita Saltamacchia e Anahì Traversi che di Dürrenmatt e Sciascia racconta anche il privato.
Fabrizio Catalano è nato a Palermo nel 1975; regista e drammaturgo formatosi presso il Centro sperimentale di Cinematografia, all’occasione romanziere e saggista (‘Le viole dagli occhi chiusi’, ‘L’immaginario rubato’), dopo avere diretto documentari e cortometraggi si è dedicato principalmente al teatro, portando spesso in scena opere del nonno. Con lui, a Bellinzona, interverranno le stesse Betschart e Riva, e poi Marco Maggi, professore straordinario di Letterature comparate e Teoria della letteratura nell’Università della Svizzera italiana, e Stefano Vassere, direttore della Biblioteca cantonale di Bellinzona (è possibile iscriversi a bcb-cultura@ti.ch).
Fabrizio Catalano, partiamo da ‘Il tenace concetto’, motivo per il quale si deve la sua presenza a Bellinzona…
È un concetto tout court, non solamente tenace, che credo manchi all’Europa di oggi, ma all’Italia particolarmente, inteso come – senza sconfinare nella retorica – avere delle idee e lottare per affermarle. Siascia stesso aveva più volte affermato come il peccato più grande della Sicilia fosse stato e continuasse a essere quello di non credere nelle idee, e siccome questa mancanza d’idee si proiettava su tutto il mondo, la Sicilia ne era diventata la metafora. Effettivamente, oggi la sfiducia nelle idee, o proprio la mancanza, sembra una regola di vita, e quanto con sfumature diverse subiamo da due anni e mezzo a questa parte ne è la dimostrazione.
Il libro porta più firme. Lei ha dichiarato che avrebbe scritto di suo nonno se soltanto l’avessero affiancata altre persone, per non correre il rischio di apparire come colui che ‘lucra’, anche solo intellettualmente, sull’illustre parente…
Sono vissuto in un mondo nel quale era normale, oserei dire ‘buona creanza’, essere riservati. Mio nonno sosteneva che anche solo raccontare i propri sogni fosse cattiva educazione, cosa che porta con sé un poco di verità, visto che la sfera del sogno è assai intima. Amenità oniriche a parte, sì, io non sarei riuscito a sedermi a scrivere un libro senza considerarmi un profittatore, anche se poi non lo sarei stato. E invece ho accettato la proposta dell’editore Simone Luciani di provare un’intervista incrociata con due sociologi della letteratura, registrata in un momento così particolare come la prima quarantena. Ricordo il professor Parini che riusciva ad andare in univerisità in Calabria e ci pareva surreale il suo parlarci da un luogo vuoto e silenzioso.
Del suo rapporto con Sciascia lei ha dichiarato: "Mio nonno ha fatto di me un disadattato"…
Una sua collega siciliana, Maria Pia Farinella, mi ha rimproverato l’utilizzo del termine. Mi ha detto che dovrei usare invece ‘irregolare’, perché ‘disadattato’ mi fa sembrare un malato (ride, ndr). Spiego così la definizione: un tempo la passione letteraria veniva vissuta senza affettazioni, senza smania di successo, senza montarsi la testa. Parlo di mio nonno ma anche di Bufalino, Moravia, persone che ho incrociato, che erano tutti uomini e donne normali; cosa inimmaginabile oggi per questo innamoramento della propria immagine riflessa negli schermi televisivi. Persone anche molto intelligenti impazziscono per il successo televisivo, per altro totalmente effimero. Per chi è cresciuto considerando che si possono avere cose da dire, o essere – parlo di mio nonno, non di me – sensibilmente più intelligenti di altri rimanendo normali, senza trattare nessuno dall’alto in basso, adesso è molto complicato.
Come sono stati i quattordici anni trascorsi con suo nonno?
Un bambino si rende conto di certe cose fino a un certo punto. Mio nonno era per tanti versi un nonno normale, che ogni tanto mi veniva a prendere a scuola, che mi portava a fare lunghe passeggiate e parlava di tanti argomenti, un nonno che leggeva tanti racconti. Capitava che qualcuno lo riconoscesse per strada, che qualche intellettuale lo venisse a trovare a casa, ma non esisteva il successo televisivo e la mia percezione di diversità viaggiava al massimo sotto traccia, a intensità sufficiente per fare caso ai discorsi che sentivo. E qualcosa di quei discorsi credo, mi auguro, sia sedimentata dentro di me.
Fondazione Sciascia Racalmuto - Nino Catalano
Il piccolo Fabrizio e il nonno
Lei ha portato in scena diverse sue opere: dimenticando qualsiasi legame di sangue, qual è l’opera più bella?
L’opera più bella è quella che non si può mettere in scena, ‘Il cavaliere e la morte’, che purtroppo ha una dimensione interiore così grande che la scena la guasterebbe.
Qualche mese fa su queste pagine, Carolina Rosi, figlia di Francesco, che di suo nonno portò sul grande schermo ‘Cadaveri eccellenti’, disse di quanto fosse difficile commemorare i cent’anni dalla nascita del padre, non tanto per la ‘scomodità’ della figura per i temi trattati in vita, quanto per un generale disinteresse della cultura italiana. Che sensazione ha avuto lei durante il centenario di Sciascia?
Credo che la situazione sia leggermente diversa. Lo dico da regista: forse la mia categoria, alla lunga, ha meno impatto sulla società. Il rischio per Leonardo Sciascia, in realtà, non è tanto quello di non essere ricordato quanto quello di essere ‘anestetizzato’, il rischio di essere ‘venduto’, come si dice oggi, come un classico della letteratura. Sciascia è sì un classico, ma è innanzitutto uno scrittore eversivo; molto di quello che ha scritto o detto è eversione nell’Italia e nell’Europa omologate di oggi. Il problema odierno non è dunque solo studiare la prosa, ricavare metafore dai documenti storici, o il fatto di essere stato, Sciascia, il primo a denunciare la mafia – cosa che ora si può dire perché tanto poi si aggiunge che oggi la mafia è una cosa completamente diversa. Il vero problema è che Sciascia è una persona che in un’intervista a Biagi disse che merita più rispetto chi assalta una banca piuttosto che chi specula in Borsa. Spiace dire di una persona che non c’è più, ma questo Paese ha parlato per una settimana della morte di Sergio Marchionne, dirigente d’azienda che sapeva fare bene i conti e licenziava persone, cosa invereconda in ottica di sviluppo etico-morale di una società. E questo mentre le morti di registi e scrittori occupano al massimo un sottopancia nei telegiornali.
Quanto alla difficoltà di celebrare l’autore ‘scomodo’, lei ha parlato di ostacoli nel suo portare in scena alcune tematiche del nonno…
Con questa cosa mi sono incrociato a volte, e altre volte l’ho intuita. Faccio un esempio. Anni fa eravamo in tournée in Puglia, a Cavallino, in provincia di Lecce; uno degli attori mi dice: "C’è un ragazzo che sta preparando una tesi sui rapporti tra tuo nonno e il teatro: ci vuoi parlare?". Il ragazzo arriva, chiacchieriamo un poco, mezz’ora prima dello spettacolo; passa un anno, torniamo in Puglia, al teatro di Barletta, e all’uscita me lo ritrovo; gli chiedo come fosse andata la tesi e lui mi risponde: "Il professore me l’ha fatta cambiare perché ha detto che è meglio non toccare certi argomenti". E i ‘certi argomenti’ erano Sciascia e il teatro, non Sciascia e il delitto Moro. Il fatto è che essere discendenti di Leonardo Sciascia fa figo in un salotto, ma all’atto pratico, nel più della metà dei casi, tende a essere un ostacolo…
Leonardo Sciascia non ha lesinato l’impegno politico, anche se sposare un’idea politica nel suo caso non significava avere una tessera, cosa magari non eversiva, ma particolare…
Sciascia ha avuto simpatie, di cui si parla anche nel libro; una vicinanza con alcuni ambienti legati al Partito Comunista nel dopoguerra, poi un’affinità culturale ed etica con Pannella, pur dissentendo sul famigerato referendum contro la caccia, o iniziative come la candidatura di Cicciolina. Pur non volendosi candidare, lo fece; voleva vedere le cose dall’interno e, nel caso del parlamento italiano, indagare sul delitto Moro. Ma era difficile che sposasse totalmente un’ideologia o si strutturasse dentro un partito. Nell’Italia di oggi, Leonardo Sciascia sarebbe un traditore.
Suo nonno ruppe con il Pci a causa del compromesso storico e di Enrico Berlinguer, del quale non era esattamente un ‘fan’, disse tempo dopo che la sua idea di eurocomunismo era "una finestra dipinta sul muro dalla quale non si poteva affacciare nessuno"…
Mio nonno diffidava molto delle dichiarazioni di facciata, di cui la nostra società è piena. E non solo diffidava dell’eurocomunismo ma dell’Unione Europea stessa. C’è un intervista del 1979 nella quale annuncia che l’Italia avrebbe fatto la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi più duri. È un’intervista gemella, fatta a lui e a Jean-Paul Sartres, nella quale i due prevedono le derive dell’Unione Europea, tutte verificatesi immancabilmente.
Fondazione Sciascia Racalmuto - Nino Catalano
Con i nipoti e Gesualdo Bufalino (dx)
Chiudo con la domanda dei centenari, ovvero chiedendole di Sciascia cent’anni dopo, ma accostandovi gli aspiranti sindaci a Palermo candidatisi con endorsement dei condannati per mafia, o i condannati per mafia che una volta scontata la pena fondano partiti…
È un’ennesima e pratica dimostrazione del nulla dell’Italia, e il problema non è solo la Sicilia e la città di Palermo. È una specie di gioco perverso, perché in una regione in crisi economica, in realtà, il desiderio di fare il sindaco non avrebbe senso. Io sono palermitano ma vivo a Roma; mi rendo conto del fatto che ogni volta che sta per avvicinarsi l’elezione a sindaco di Roma, nessuno lo vuole fare. Forse a Palermo nemmeno hanno questa consapevolezza. Ecco, l’ultima mia risposta si riallaccia alla prima: si tratta di ignavi, in mezzo a persone disposte a subire, a illudersi di vivere in un mondo felice e civilizzato perché hanno i telefoni cellulari in mano, ma nel caso di gran parte della Sicilia l’acqua arriva a ore alterne della giornata, in alcune zone interne anche a distanza di giorni, e nonostante tutto qualcuno continua a sentirsi cittadino del settimo Paese più industrializzato del mondo. Quanto a ‘Sciascia cent’anni dopo’, quindi, dico che oggi sarebbe considerato come minimo un complottista, affermazione completamente senza senso essendo la storia d’Italia dal 1860 a oggi interamente basata sul concetto di complotto, dall’unità d’Italia al già menzionato delitto Moro, fino all’invio di armi in Ucraina di nascosto. Dico che oggi mio nonno non avrebbe diritto di parola.
In che senso?
L’Italia ha più o meno 60 milioni di abitanti, l’Europa più o meno 750 milioni. Eppure non emergono figure come Sciascia, Pasolini, Sartre. Io non credo che non emergano perché non ne esistono, anche perché in questa mancanza subentra per forza anche il calcolo delle probabilità. Non emergono perché il sistema ora fa scudo. Ci sono momenti di fuoriuscita da particolari crisi, come i primi trent’anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui il sistema – parola assai rischiosa, mi rendo conto, ma è un fatto – ha perso il controllo della situazione e questi personaggi riescono a emergere; poi però il sistema si richiude, trincerandosi dietro il politicamente corretto, l’omologazione, dimenticando che tutta l’arte e la cultura italiana e del mondo latino è politicamente scorretta, e se si toglie il politicamente scorretto, non resta nulla.