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La liberazione di Irpin raccontata da chi l’ha fatta

Anton è arruolato nelle truppe di difesa territoriale. Ci racconta cosa ha visto, come si è mosso e cosa ha rischiato

(Keystone)
13 aprile 2022
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Bucha, Borodyanka, Irpin: località ormai tristemente note, scene di alcuni dei peggiori attacchi russi durante l’offensiva su Kiev. Irpin è stata liberata il 28 marzo, Bucha e Gostomel sono state dichiarate libere il primo aprile. A Irpin, per due settimane a partire dal 18 marzo, c’era anche Anton H., soldato impegnato nella Difesa territoriale. In quella quindicina di giorni Anton si è trovato affiancato alle truppe che tenevano la posizione del fronte. Il suo compito era quello di controllare che i russi non raggiungessero il ponte principale di Irpin prima degli ucraini: «Stavamo di vedetta e vedevamo gli ‘orchi’ che provavano e riprovavano ad abbatterci», racconta. «Colpi di mortaio, d’artiglieria, un paio di volte sono spuntati perfino dei carri armati. Le raffiche potevano durare mezz’ora come un’ora intera. E tu ti trovi in mezzo a questa sorta di lotteria in cui senti il colpo, aspetti che atterri il proiettile, ma fino all’ultimo non sai se toccherà a te essere colpito. Noi siamo stati fortunati, per così dire: in due settimane abbiamo avuto un solo morto e dieci feriti, perlopiù in modo lieve».

Senza armi pesanti

«Non avevamo equipaggiamento pesante, il nostro compito era osservare e riferire quanto vedevamo, sostenere il primo confronto a fuoco e infine lasciare il campo all’esercito. Dietro di noi le truppe ucraine rispondevano all’attacco con i tank e l’artiglieria», aggiunge Anton. Una ‘normale’ giornata al fronte permette anche di riposarsi e dormire, ma solo quando si è in numero sufficiente. Nelle giornate più difficili, al contrario, può capitare di rimanere in servizio per ventiquattr’ore. E poi ci sono gli approvvigionamenti e l’equipaggiamento: l’unità di Anton aveva quanto occorreva per una settimana di servizio, ma il dispiegamento è durato il doppio. Anton però non si scompone: «Avevamo quel che ci serviva, e non è che serva chissà cosa per combattere. Puoi farlo bardato come un cyborg oppure con addosso solo un giubbotto antiproiettile e un elmetto, specie se devi tenere le posizioni e non conquistarne di nuove. C’è una mitragliatrice, ma la si usa di rado. Man mano che i combattimenti procedono i soldati portano con sé sempre meno cose. Il laccio emostatico puoi tenerlo in tasca, non ti serve lo zaino».

‘Sotto il tiro dei carri armati russi’

L’unità di Anton si è poi ritirata verso altre posizioni dalle quali svolgere missioni di ricognizione. A volte si trattava di incursioni rapide, ma in alcuni casi si sono trovati sotto il fuoco nemico e il ritorno è stato più lento e complicato, con la necessità di trovare rifugio dai colpi dei carri armati. «È difficile dire come facessero a individuare i nostri movimenti, dove fossero i loro osservatori», nota Anton, «fatto sta che i carri armati ci sparavano addosso e verso le case. Una volta ce ne siamo trovati uno proprio di fronte. È stato il momento più difficile: eravamo bloccati, per un momento non sapevamo più cosa fare. Poi i ragazzi hanno sparato una granata con un lanciarazzi anticarro, di quelli a spalla. Ci siamo stesi tutti a terra e abbiamo atteso che le nostre truppe attaccassero il carro anche ai fianchi. C’è stato solo un morto. A salvarci è stato il fatto che il tank era troppo in alto rispetto a noi per puntarci come si deve, per cui i colpi fischiavano sopra alle nostre teste».

Nel pieno dell’occupazione, a Irpin erano rimasti circa 2’500 civili. Anton ne ha visti sì e no una dozzina. È stato l’esercito a convincere la gente ad andarsene, ad aiutarli a raggiungere altre destinazioni e far sì che durante lo spostamento fossero il più possibile al sicuro. I residenti cercavano cibo nei negozi semidistrutti e l’esercito gli ha permesso di prenderne, purché non toccassero gli alcolici. «Spesso passavano civili provenienti da Bucha. Mi ha colpito molto una famiglia: padre sulla settantina, con la moglie e una figlia che avrà avuto trent’anni. Hanno attraversato il ponte e abbiamo dato loro il consueto benvenuto: "Buon pomeriggio, ora siete protetti dalle forze armate ucraine". La donna si è gettata tra le nostre braccia. Ci ha detto che i katsaps (epiteto utilizzato per definire i russi, forse dall’ucraino per ‘capra’ o dal turco per ‘macellaio’, ndr) ammazzavano i civili per strada, che finalmente poteva sperare di sopravvivere».

Bucha era stata completamente occupata e a Irpin solo una delle tre strade principali era sotto il controllo ucraino. I russi nel sud della zona mettevano a rischio la posizione di Anton: «Alla nostra destra c’era un altro ponte sulla Buchanka, per il quale combattevamo. Il ponte Jur si trova al centro, e ai russi non sarebbe convenuto attraversarlo perché si sarebbero infilati in mezzo a palazzi molto alti. Una volta ci hanno sparato, ma non sono riusciti a raggiungerci. Ci siamo ritirati e poi per qualche giorno abbiamo continuato con le incursioni occasionali, toccata e fuga. Poi i russi hanno colpito la fabbrica di plastica, che è bruciata per giorni». Mentre Anton combatteva, altre truppe spingevano i russi fuori da Makarov. A quel punto l’invasore ha rischiato di trovarsi circondato, e forse proprio per questo ha preferito ritirarsi da Kiev. Hanno perso moltissime forze, risorse ed equipaggiamenti prima di andare a concentrarsi nelle zone orientali del Paese.

Le forze di difesa territoriale forniscono un sostegno eccellente all’esercito, ma non possono sostituire le truppe regolari. Possono però, ad esempio, essere dispiegate su parte del fronte. L’importante è tener conto delle effettive esperienze militari dei suoi membri, esperienze che ad Anton non mancano: «All’inizio della guerra abbiamo occupato l’aeroporto, e non ci è servito l’aiuto di nessun altro. Abbiamo permesso all’esercito di concentrarsi altrove». Quando abbiamo incontrato Anton, si era preso un paio di giorni di riposo a Kiev. Al momento di andare in stampa è molto probabile che sia già ripartito verso nuovi fronti, in difesa del suo Paese.