A Kharkiv manca tutto, la gente ruba quel che può nei negozi, la polizia finge di non vedere. A Dnipro chi produceva pezzi per pc passa alle armi
Il mercato di Saltivka è in fiamme. Una colonna di fumo nero si alza verso il cielo. Fumo denso, che avvolge la luce del giorno, oscura il gelido sole e rabbuia i volti di chi guarda dalla finestra della propria casa l’ennesimo bombardamento avvenuto in questo quartiere di Kharkiv. È Valeria a mandare un messaggio e una fotografia. "È caduto qualcosa vicino a casa mia. Vedo il fumo dalla finestra – scrive su Telegram – Venite?"
Valeria ha vissuto dieci anni in Italia, a Modena. Ha un figlio di diciotto anni e non se la sente di partire, perché anche se riuscisse ad arrivare al confine, poi dovrebbe dividersi da lui. Nessun uomo adulto può uscire dall’Ucraina. E questo lei, non riesce neanche a pensarlo.
Cinque colpi di artiglieria russa hanno devastato tutta la zona del mercato. Sempre la zona nord della città. I pompieri sono appena arrivati. Attaccano alle autobotti i tubi flessibili delle manichette antincendio e le srotolano. Decine di chioschi prendono fuoco velocemente, come fiammiferi accesi uno dopo l’altro. Un incendio furioso, che si sviluppa velocemente distruggendo tutto quello che incontra.
Una donna cammina tra le rovine (Keystone)
Alcuni di questi negozi vendono prodotti chimici, bombole del gas, materiale per l’edilizia. Ci sono esplosioni, fiamme su fiamme. Le squadre di vigili si spingono dentro l’inferno in fila indiana, a colpi di idrante. Il fumo ti entra in gola, tossisci mentre li segui. Un’altra squadra spacca i lucchetti dei chioschi alzando le saracinesche e bagnando preventivamente ogni cosa tentando di fermare l’incendio. Si scivola per terra. Le lastre di ghiaccio sull’asfalto sono coperte da laghi d’acqua.
Poco distante decine di persone stanno raccogliendo stecche di sigarette da un altro negozio completamente distrutto dall’onda d’urto. "Non sono uno sciacallo, ma tanto le avrebbe portate via qualcun altro", dice un uomo, quasi a scusarsi per un gesto che non avrebbe mai fatto, in un altro contesto. Ma adesso tutto o quasi diventa giustificabile.
Dopo pochi minuti cade un altro colpo di mortaio. La deflagrazione è violenta. Si corre per le scale della metropolitana, in cerca di un rifugio sicuro. Poi la fuga in macchina, lungo una strada seminata di carcasse di mezzi russi bruciati davanti a un edificio completamente distrutto. I resti di una battaglia avvenuta gli ultimi giorni di febbraio. Non c’è pietà contro chi invade la tua terra e spara sui civili.
Poco distante un centro commerciale è stato preso d’assalto. I vetri rotti da una esplosione, l’acqua per terra che arriva dai piani superiori. Ci sono delinquenti che se ne approfittano e gente che ha soltanto fame. Una anziana signora esce di corsa con un carrello pieno di patatine. Non c’è quasi più nulla all’interno del centro commerciale.
Come cavallette, centinaia di persone sono entrate per ore portando via tutto quello che potevano prendere. Degli uomini caricano un bancale preso nel magazzino. La polizia, quando arriva, urla di uscire ma non ferma nessuno. "Non possiamo fare nulla, in un altro momento li avremmo arrestati, ma queste persone vogliono solo del cibo", al massimo li redarguiamo, dice uno di loro.
L’esercito pattuglia le strade con mezzi di fortuna (Keystone)
Le bombe su Kharkiv continuano a cadere. Migliaia di persone vivono nascoste, le più fortunate in metropolitana, altre nei sottoscala, negli scantinati. In una scuola media del quartiere, nei meandri sotterranei, tra tubi di scarico, stracci sporchi, brande umide e terra, vivono trentacinque persone. Fuori, resti di razzi Grad. Un uomo indica una colonna di cemento. C’è qualcosa appiccicato. Una massa secca di grumi rossastri. "Un razzo è esploso proprio qui, davanti all’entrata. Era uscito per fumare e l’esplosione gli ha tranciato via le gambe. Quello sulla colonna è un pezzo del suo corpo".
Dal seminterrato escono come fantasmi, una dopo l’altra, figure dalla penombra. Sono persone anziane per la maggior parte, le facce dimesse, stanche, infagottate il più possibile per resistere a temperature ampiamente sotto lo zero. Sono gli ultimi della terra, in questa città di sepolti vivi. Ma Kharkiv non è morta, continua a vivere, almeno per adesso, fino a quando i russi non decideranno di aumentare i bombardamenti, portando il terrore ovunque in città.
La strada per Dnipro è costellata di checkpoint. I controlli sono aumentati. La città stessa, quella di Dnipro, è diventata una fortezza. I suoi lunghi ponti che collegano le due parti dell’abitato sul fiume Dnepr, hanno postazioni e soldati, sacchi di sabbia e cavalli di Frisia, e probabilmente sono già stati minati per frenare l’avanzata del nemico, se mai dovesse presentarsi alle porte di questa città.
Valera è un ex contractor. Ha lavorato in Iraq e nei servizi anti pirateria sulle navi che passano il Golfo di Aden. Prima che scoppiasse la guerra faceva l’agente di sicurezza nei locali. "Ho combattuto nel 2014 come volontario in Donbass. In precedenza sono stato nell’esercito. Ho passato quasi tutta la mia vita nel mondo militare e so cosa vuol dire combattere. Ma oggi non so se farei le stesse scelte che ho fatto in passato. Se mi costringeranno, andrò nuovamente in prima linea, ma solo perché sono obbligato a farlo. Ho una famiglia e un bambino nato da poco. So chi ho davanti – dice –, non sono quattro miliziani ma uno degli eserciti più potenti del mondo". O almeno, lo era sulla carta.
I volti dei soldati morti in una strada di Kharkiv (Keystone)
Dopo 29 giorni di guerra, tutti gli obbiettivi che la Russia si era prefissata a livello militare sono falliti. Nessuna conquista delle grandi città, come Kharkiv o Kyiv, nessun sostanziale avanzamento sul terreno, perdite ingenti di uomini e mezzi. Ma Mosca fa comunque ancora paura e il conflitto sta coinvolgendo anche miliziani, ex soldati e militari di altri Paesi. La Russia porta con sé ceceni, siriani e libici. Dall’altra parte si dà accesso agli stranieri che vogliono combattere per sconfiggere l’invasore.
La macchina di Valera si ferma davanti a un magazzino, un grigio palazzone industriale di cemento e vetri. All’interno un gruppo di persone sta lavorando dei pannelli di acciaio o titanio sotto la fresa. Riproducono artigianalmente le piastre balistiche che si vanno a inserire nei giubbotti antiproiettile. "Qui ognuno di noi ha utilizzato le proprie competenze riconvertendo questa azienda, che prima si occupava di riparazione computer", racconta uno di loro. In questo gruppo di persone ci sono ingegneri, fisici, informatici.
Di storie come queste è pieno, qui in Ucraina. A Kramatorsk, a tre ore di distanza verso est da Dnipro, Julia, una insegnante di informatica, insieme a un gruppo di volontari, costruiscono i tourniquet, i lacci emostatici di tipo militare utili a fermare emorragie gravi, con le stampanti 3d. In altri luoghi ancora centinaia di donne costruiscono reti mimetiche tagliando e cucendo piccoli pezzi di stoffa colorata su lunghe reti.
Anche a Zaporizhzhia, ottanta chilometri più a sud di Dnipro, la gente si organizza. Ci sono anche qui checkpoint, postazioni, trincee, sia dentro che fuori dalla città. Le unità di difesa territoriale, sempre più numerose, controllano il territorio insieme a polizia ed esercito. Il nemico è vicino, a una ottantina di chilometri. Scendendo verso la prima linea delle postazioni ucraine, ancora più a sud, a Kamyanske, la strada diventa un percorso di morte. Razzi Grad conficcati nell’asfalto, macchine bruciate, mucchi di sabbia e blocchi di cemento ovunque.
Sulle colline colonne di fumo nero si alzano. "Il nemico attacca, dice un ufficiale guardando dal finestrino dell’auto. Qui dalla fine di febbraio non c’è stata una notte che non abbiano colpito". Nel villaggio, che una volta aveva duemila abitanti, rimangono una quarantina di persone. I segni dell’attacco della notte precedente sono ancora visibili: i resti di una casa bruciano ancora. La cucina è l’unica parte dell’edificio rimasta intatta. Sui fornelli c’è una pentola annerita e resti di cibo sparsi un po’ ovunque. Un gatto si avvicina ai soldati miagolando, in cerca di cibo.
La gente affolla la metropolitana (Keystone)
Sono costruzioni semplici queste, di pietra. Qualcuna è più curata, in muratura. Ma rimangono case di contadini, modeste. Abitate da persone che non sanno dove andare e che non hanno neanche le possibilità economiche per pensare di andare via, lontane di loro campi e dalle poche cose che possiedono. Davanti a una di queste un uomo vuole mostrare il luogo dove si rifugiano appena sentono i primi colpi arrivare. Una serie di scalini all’interno di un povero casolare portano a un unico stanzone sporco con un materasso e delle coperte. Ci dormono in otto, quando fuori è impossibile restare. L’uomo mostra con orgoglio ai soldati il suo maiale, lo abbraccia. Ne ha uno solo, una ricchezza per tutta la famiglia, così come i suoi figli sono vestiti con abiti laceri, consunti, e scarpe spaiate.
Sembrano usciti da un romanzo verista di Verga, da racconti di altri tempi, eppure sono reali, tangibili. Eppure anche loro, distanti anni luce dalla modernità e dall’agiatezza di chi vive nelle grandi città, subiscono la morte e la tragedia dell’esodo, quando sono obbligati a farlo. Subiscono la devastazione della guerra. Una donna anziana con una tuta rossa e due denti d’oro piange davanti alla sua casa sventrata da una esplosione.