In viaggio in uno dei luoghi simbolo del primo regime talebano. Qui i mujaheddin fecero esplodere statue secolari e massacrarono intere famiglie innocenti
Assorti e inespressivi, alcuni mujaheddin talebani si avvicinano al Buddha Samsal. Lo scrutano. Sembrano persi. Alcuni scattano una foto. Sono giovani. Sembrano non sapere cosa sia. Samsal li osserva in silenzio dall’alto, con il viso sfigurato, incastonato nel muro di roccia marroncina che protegge la valle verdeggiante di Bamyan. La sua statua, la più grande, è stata fatta esplodere nel marzo del 2001 durante il primo regime talebano, insieme a quella di Shamama, suo equivalente femminile situato qualche centinaio di metri più in là. La popolazione locale (soprattutto Hazara, gruppo perseguitato in passato dagli studenti coranici) fu costretta dai talebani a premere il pulsante dopo aver riempito le statue di esplosivo.
Per vent’anni la comunità internazionale ha investito milioni di dollari per ricostruirle. Ma le macerie di quelle che erano parte dell’anima della valle si trovano ancora stipate e impolverate in baracche di legno ai loro piedi. La distruzione dei due Buddha rimane forse il ricordo e il segno più nitido, nel mondo, che hanno lasciato i talebani nella valle di Bamyan. Ma per i locali, non è il ricordo peggiore. Il ritorno dei talebani nella valle a inizio agosto ha riportato la mente dei suoi abitanti Hazara agli anni 90, alla repressione e alle esecuzioni sommarie.
“Quando i talebani sono arrivati, ho spedito la mia famiglia nelle montagne, nel mezzo di valli remote. Sono tornati solamente alcuni giorni fa”, commenta Navid, un contadino di 22 anni. Ara la sua terra con un bue, raccogliendo le ultime patate insieme ad altri uomini e donne, esattamente di fronte alla vista mozzafiato dei Buddha. Sta accumulando riserve per il rigido inverno che li attende.
Come Navid, la maggior parte della popolazione della valle ha reagito d’istinto, caoticamente, alla notizia del ritorno dei talebani, fuggendo in valli dimenticate e introvabili. Sono tornati solamente quando hanno capito che non c’era pericolo. Anche se le cose sembrano ora normali e le pattuglie talebane quasi inesistenti, la cittadina di Bamyan ha perso vitalità. Le foto del leader Hazara, il Shahid Ali Mazari, sono state stracciate. La sua statua profanata. “Ho mandato la mia famiglia a Kabul” racconta un uomo: “Non mi fido. Ma non abbiamo altra scelta, non possiamo resistere e dobbiamo solo sperare che non avvenga nulla”. Per 20 anni, dopo l’inizio dell’occupazione Nato, la valle è rimasta un’oasi di pace in mezzo alla distruzione e alla guerra. E anche se finora non ci sono stati abusi contro gli Hazara, la gente è tornata a vedere i fantasmi del passato.
Sono soprattutto i ricordi del tenebroso settembre del 1998 a riaffiorare, quando, dopo una forte resistenza del partito armato della Jihad a maggioranza Hazara Hizb-e-Wahdat, i talebani sono entrati nella valle massacrando civili innocenti. “Riuscii a fuggire appena in tempo, rifugiandomi nelle montagne. Ma mio fratello fu catturato. Lo massacrarono. Mio padre, non poté nemmeno uscire di casa” rammenta Mirsa Hussein, 56 anni. Passeggia appena fuori casa, nel villaggio di Sar Asiap, vicino all’aeroporto regionale. “Abbiamo molta paura che tutto ciò possa ripetersi”. Il suo caso, nella zona, è tristemente simile a molti altri. Una fitta indelebile nella memoria. Nel villaggio, circa 70 persone furono giustiziate quel giorno. “Seppellii i miei cari quando tornai, due settimane dopo”.
Ali invece osserva dalla sua casa la valle, ai suoi piedi. In fondo, alla fine della distesa verde, i due Buddha. Ma il suo sguardo è impassibile. Sorride con aria triste: “Ora accadrà di peggio” sostiene, con una smorfia di nervosismo. Conosce poco, nemmeno la sua età. Sa solo che da giovane ha perso il padre e due zii. Nello stesso giorno li ha trovati fuori di casa con una pallottola conficcata in testa. “Tornai al villaggio dopo essermi rifugiato nelle montagne e provai a seppellirli. Solo in quel momento mi resi conto di ciò che era successo”. È scappato scalzo, tra le vette più alte del mondo, affrontando l’inverno. “Bisognava sopravvivere”, dice con tono pacato. Al cimitero del villaggio, sovrastante un panorama mozzafiato, si inginocchia sulla tomba dei suoi. Almeno, sembra, possono riposare in paradiso.
“Se nessuno ci aiuterà, rischiamo di fare la fine dei nostri familiari” commenta invece in un buon inglese un ragazzino di una casa poco più in là. Aveva 5 anni quando ha perso sette membri della sua famiglia. Non si ricorda molto. Ma il luogo dove sono stati uccisi è proprio fuori dalla porta di casa e le tombe, situate in quel luogo, rammentano a tutti, ogni giorno, la tragedia che ha colpito la famiglia. Sono poste in ordine. Dal più vecchio al più giovane. Nell’ordine di esecuzione. Tutti uomini, uno dopo l’altro.
Le donne invece, hanno dovuto guardare. Fra loro, Rahima, 53 anni, madre di 3 figli uccisi, moglie di un marito perduto, e nonna di 2 nipoti innocenti. Si siede con difficoltà per terra. Al suo fianco, i figli della seconda moglie di suo marito. “Quando i talebani arrivarono in casa, fecero uscire gli uomini. Li rincorsi con il corano fra le mani, supplicandoli. Mi buttarono al suolo, strappandomi il libro sacro dalle mani” - racconta l’anziana, con una forza lucente negli occhi- “Mio marito disse che voleva essere ucciso per primo, così da non vedere i propri figli essere giustiziati. Lo accontentarono”.
In totale 7 persone della famiglia e 3 ospiti sono stati uccisi. Solo uno si è salvato: Said Mohammad Hussein, 60. Fuori dalla casa mostra con il dito, agitato, come è riuscito a svincolarsi. “Quando i talebani entrarono legarono le mani degli uomini con le sciarpe che tenevano sulle spalle. Ma visto che io non ne avevo, mi lasciarono senza. Ero il quarto della fila. Appena spararono al terzo, scappai” – racconta, ripercorrendo lo stesso cammino che lo ha portato in salvo –. “Fu un miracolo. Provarono a spararmi ma non mi colpirono. Scappai a valle. Alcune donne che stavano cucinando del pane nel tandoor (il forno tradizionale), mi ci misero dentro. Vi restai almeno dieci ore. Ricordo che era tarda notte e non mi cercavano più. Allora fuggii nelle montagne e da lì arrivai a Ghazni, ritornando solamente dopo l’arrivo degli americani”.
Anche Rahima e i due figliastri, sopravvissuti, sono fuggiti: “Bruciarono la casa con della benzina. Tornammo solamente dopo 40 giorni, quando Hizb-e-Wahdat riconquistò Bamyan per alcuni giorni. Potemmo seppellire i cadaveri in putrefazione” commenta Mohammed Sadiq, uno dei figliastri di Rahima. “Non c’era nessuno che potesse aiutarci a trasportarli fino al cimitero, perciò decidemmo di seppellirli nel cortile”.
Rahima esce di casa. Prega di fronte ai morti prima di nominare ognuna delle vittime. Poi esclama: “Viviamo nel terrore giorno e notte”. “Hanno detto che non faranno del male a nessuno” conclude Mohammad Hussein, l’altro figliastro, con l’immancabile sorriso afghano- “Ma io non ci credo. Tuttavia, non possiamo nemmeno vivere sempre in montagna. Non c’è nulla. Non c’è cibo”.
Per le strade, bambini Hazara giocano con le biciclette mentre altri raccolgono i resti delle patate per sfamare intere famiglie. Per ora tutto è estremamente povero, semplice, normale. Ma dentro ogni abitante di Bamyan, si cela un forte timore nei confronti dei nuovi padroni della valle, difficile da cancellare.