Intervista al regista Haider Rashid, vincitore a Castellinaria del Premio ambiente e salute per il suo film che ci porta ai confini d’Europa
“È il solito film per sensibilizzare sui poveri migranti?” mi chiede un collega incuriosito da un estratto di ‘Europa’ di Haider Rashid, con il giovane iracheno Kamal in fuga dalla polizia bulgara e da gruppi paramilitari che pattugliano il confine.
No, ‘Europa’ non è “il solito film” ed è anzi una delle più interessanti sorprese di questa edizione di Castellinaria. Non è il solito film per molti motivi: per le riprese – la camera segue Kamal con continui primi e primissimi piani –, per il montaggio serrato, per una trama essenziale e da action thriller, col protagonista in fuga. Poi certo, il protagonista è un profugo alla frontiera tra Turchia e Bulgaria, quello della migrazione è il tema del film ma si è cercato di non realizzare il film impegnato che circola solo tra chi ha già una certa sensibilità al tema, come ci spiega, con leggero accento toscano, il regista italo-iracheno dopo la proiezione di ‘Europa’ per le scuole. «Non è un film fatto solo per un certo pubblico, anzi: è un film pensato principalmente per provocare un pubblico contrario alle politiche di accoglienza. C’è purtroppo un problema pratico-distributivo: il mercato del cinema funziona per compartimenti stagni, segue sempre gli stessi schemi prestabiliti e lo dico anche con un po’ di polemica. Sono barriere che noi cerchiamo di rompere perché se ce lo diciamo tra di noi che la pensiamo allo stesso modo, diventa un esercizio fine a sé stesso e non ci interessa avere pacche sulle spalle». Il film, prosegue Rashid, è pronto per un pubblico ampio: «Veniamo da diversi mesi di festival e proiezioni con pubblici molto variegati, solitamente si dice che il film d’autore è per un pubblico particolare, diciamo “in là con l’età”, ma quello che abbiamo visto in diversi Paesi è che c’è una risposta molto forte da parte dei giovani, anche perché come ritmo e codici stilistici il film è vicino al loro modo di sentire». Durante la nostra chiacchierata le giurie di Castellinaria si devono ancora riunire: che il film, in concorso nella sezione Young, avrà vinto il Premio ambiente e salute lo scopriremo solo nel pomeriggio.
La camera sta continuamente addosso a Kamal, portando lo spettatore insieme a lui nei boschi della Bulgaria. È un’esperienza vicina a quella della realtà virtuale, tecnologia con la quale Rashid ha lavorato per il documentario ‘No Borders’. Ma, ci spiega, ‘Europa’ non è mai stato pensato come un film in Vr. «Un motivo è personale: vengo dal cinema lineare e dopo due-tre anni di lavoro nella realtà virtuale avevo delle frustrazioni per la mancanza di sguardo, perché con la Vr hai una sfera a 360 gradi che ti toglie uno dei pochi strumenti che ha un regista, la scelta dell’inquadratura». A questo si aggiungono i limiti della tecnologia che, costringendo a una certa staticità, poco si adatta a certi progetti.
Un ritorno al cinema tradizionale ma «senza negare questa mia esperienza, anzi facendone tesoro: ‘Europa’ è nato grazie alla realtà virtuale ma doveva necessariamente essere qualcosa di diverso».
Restando agli aspetti più tecnici del film, il suono è un elemento centrale, sia per accentuare questa dimensione “immersiva”, sia per lo sviluppo della storia con molti elementi che, esclusi dalle strette inquadrature sul viso e il corpo di Kamal, sono presenti solo come suoni. «Sì, è stato l’aspetto al quale tenevamo di più dal punto di vista tecnico, scrivendo i suoni già in fase di sceneggiatura, ragionando su come posizionarli, pensando sempre a come il suono dovesse “girare” con i movimenti della macchina da presa». Una lezione che arriva dalla realtà virtuale, ma non solo: importante è stato l’intervento di Sonia Giannetto, aiutoregista, co-sceneggiatrice e co-montatrice del film. «Mi sono diplomata in regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma – ci racconta – e il mio lavoro di diploma è stato il primo cortometraggio italiano in Atmos: per ‘Europa’ abbiamo messo insieme le nostre competenze, quelle di Haider provenienti dalla realtà virtuale e le mie da Atmos». Si tratta di una spazializzazione tridimensionale del suono che circonda lo spettatore non solo orizzontalmente ma anche in altezza, e qui Giannetto cita una scena del film in cui Kamal si arrampica su un albero, seguito da un lungo piano sequenza della camera. «Cambia la percezione del suono, se sei a terra o in alto. Ogni suono è stato studiato e spazializzato in base ai movimenti del personaggio».
La sequenza dell’albero, ci spiega Rashid, è stata realizzata con l’operatore imbragato come un alpinista tutto il giorno. «Le riprese sono state molto fisiche e non potevano essere altrimenti, perché per me l’unico modo coerente per raccontare la storia era questo: stare addosso al personaggio, rappresentare i suoi movimenti, la sua emotività». Il che ha significato spingere al limite sia l’attore (Adam Ali) sia l’operatore (Jacopo Maria Caramella, anche direttore della fotografia) «che sono stati molto coraggiosi e hanno abbracciato con grande passione non scontata il progetto: alcune cose che abbiamo fatto erano al limite della tolleranza fisica».
Il regista conclude con un accenno alla fotografia – «quasi tutto in luce naturale» – e al modo in cui la macchina da presa si relaziona con il protagonista durante il film: «Nella prima parte del film è quasi sempre solo sul suo viso, poi inizia ad avere un rapporto con il corpo: c’è un rapporto che si sviluppa in questo girare in sequenza, è stato fondamentale».
Il film racconta innanzitutto di un ragazzo in fuga: sappiamo che è un profugo, sappiamo di trovarci lungo una delle cosiddette rotte balcaniche della migrazione ma a contestualizzare tutto questo sono pochi testi introduttivi. Una scelta, ha spiegato il regista, «che arriva prima di tutto da una frustrazione per quello che normalmente è il racconto di questi viaggi e di tutti gli aspetti legati alle migrazioni, visto attraverso la politica, l’economia, i numeri, il pietismo, il parlarne lavandosene poi le mani… quello che rimane fuori è la persona, l’essere umano». Il film, prosegue il regista con tono pacato ma risoluto, vuole dare allo spettatore la possibilità «di andare oltre la coltre di propaganda e dibattiti televisivi e politici quasi sempre sterili: vogliamo parlare di migrazione? Questa è la realtà, questo è quello che succede».
Il film pone, in modo semplice e anti retorico, una domanda che il regista ci riassume con toni decisi: «Come è possibile che questo accade in un continente che si porge democratico, giusto, moralmente superiore al resto del mondo, che ha basato e tutt’ora basa la sua storia su questa apparente superiorità morale? Questi eventi sono una delle dimostrazioni che questa superiorità non esiste».
Per questo il film si intitola semplicemente ‘Europa’? «La vicenda è contestualizzata in un luogo e in un tempo precisi, ma potrebbe essere una storia avvenuta vent’anni o, purtroppo, che avverrà tra vent’anni, siamo in Bulgaria ma potremmo essere tra Bielorussia e Polonia, in Croazia, tra Italia e Francia, in Spagna o anche tra Messico e Stati Uniti».