Le ‘fantasie di complotto’ come QAnon vanno affrontate sul piano dell’immaginario che queste narrazioni mobilitano. E nascono da un disagio reale
Quasi seicento pagine per scoprire QAnon, la fantasiosa teoria che vede l’ex presidente statunitense Donald Trump impegnato in una battaglia contro sette sataniche, reti di pedofili, poteri occulti, nuovo ordine mondiale coinvolgendo personaggi come Tom Hanks e Hillary Clinton. Ma ‘La Q di Qomplotto’, opera di Wu Ming 1, non si limita a ricostruire la storia di questo movimento, ma analizza le ragioni profonde di un fenomeno che «è qui per restare: non possiamo pensare che sia un momentaneo abbaglio della razionalità», come ci ha spiegato l’autore, domenica 7 novembre 2021 alla Filanda di Mendrisio per un incontro organizzato dalla Biennale dell’immagine di Chiasso – che ha come tema, appunto, ‘Fake’ – con il Cineclub del Mendrisiotto e ChiassoLetteraria.
‘La Q di Qomplotto’ (Edizioni Alegre 2021) non è un manuale su come contrastare le fantasie di complotto – «nessuno lo può scrivere» –, non è neanche un saggio o un romanzo: Wu Ming 1 lo definisce un “oggetto narrativo non identificato”. «Ho utilizzato tecniche letterarie particolari, ed è venuto fuori un libro ibridato, abbastanza allucinogeno, tutta la seconda parte si svolge in una cornice onirica». E questo perché il confronto con le fantasie di complotto si gioca «sul terreno dell’immaginario».
Certamente è stato un libro difficile da scrivere: Wu Ming 1 ha frequentato le comunità online in cui QAnon è nata e cresciuta, ha letto documenti, guardato video di stragisti. «Ho somatizzato: ho avuto due colpi della strega, mi è venuto l’acufene, con un fischio continuo nell’orecchio… questo per dire quanto è potente questo materiale: si sta veramente lavorando con il mito nel momento in cui si fa». Un mito contemporaneo al contempo terribile e consolatorio: «Per chi ci crede è consolatorio perché dipinge un mondo orrendo dominato da pedofili satanisti ma che ha un ordine, ha un’intelligibilità, e loro finalmente conoscono la verità».
Il libro ci porta nel mondo di QAnon, ma il suo interesse per la falsificazione e la simulazione non è recente.
No, risale ai tempi, gli anni Novanta a Bologna, in cui facevo parte del progetto Luther Blissett che, tra le varie cose che faceva, c’era la creazione di falsi eventi, la concatenazione di false notizie. Da una parte erano dei giganteschi trappoloni per i media che ci cascavano, dall’altra erano per noi l’occasione per sperimentare non solo delle tecniche ma anche dei modi di stare insieme, di fare cooperazione sociale. Preparavamo delle sceneggiature, delle storie complicatissime tutte immaginarie e poi cominciavamo a metterle in scena sul teatro del mondo, nello spazio urbano e nello spazio dell’informazione. Il nostro exploit più famoso fu quando nel 1995 spacciamo una falsa scomparsa a ‘Chi l’ha visto?’, una troupe del programma girò per mezza Europa per cercare una persona che non era mai esistita…
Più famoso ma non l’unico.
In ‘Q di qomplotto’ racconto tutte le nostre beffe mediatiche a sfondo satanico che rientravano all’interno di una campagna di controinformazione sul caso dei “bambini di Satana” a Bologna, un gigantesco errore giudiziario. All’epoca sperimentavamo il falso direi a scopo pedagogico, educativo: mostrare come funzionavano i meccanismi della mostrificazione, della criminalizzazione di un innocente, come funzionava il sensazionalismo su un fenomeno di costume.
Funzionava?
All’epoca funzionava. Oggi è tutto più complicato e non si può più applicare alla lettera quella lezione, ma se ne può recepire lo spirito. Intendo dire che di fronte a un fenomeno come il cospirazionismo non basta dire che è falso, non basta dire che una fantasia di complotto è falsa, è illogica, non ha senso. Non funziona: una fantasia di complotto ha successo perché intercetta determinati flussi dell’immaginario che sono dei flussi prettamente mitologici che non hanno a che fare con il raziocinio, con l’informazione, con la logica. Sfidarli su quel terreno lì è quindi insufficiente: va fatto, va detto che una bufala è una bufala però chiunque si sia illuso che questo bastasse ci ha sbattuto il grugno. Nessuna teoria del complotto che sia stata confutata è scomparsa. Quello che probabilmente bisogna fare, oltre al ‘fact checking’, è offrire a quelle persone una narrazione che sia più interessante della fantasia di complotto. Ed è quello che facemmo all’epoca con le beffe a sfondo satanico: una volta che le rivendicammo, che dimostrammo che eravamo stati noi a orchestrare tutto e che i giornali avevano pubblicato tutto senza fare la minima verifica, quello che ne venne fuori era più interessante di qualsiasi storia su messe nere eccetera. La sfida è sul terreno dell’immaginario.
Il libro nasce anche dall’insoddisfazione del cosiddetto ‘debunking’, un fenomeno che va per la maggiore ma che ha scarsissimi risultati. Predicano ai convertiti, convincono chi è già convinto.
Molti ‘debunker’ dicono di non voler convertire i complottisti convinti, ma di rivolgersi soprattutto agli indecisi, a chi non ha ancora un’opinione forte.
Diciamo che manca il controfattuale: si dice che se non ci fosse il debunking quelle fantasie di complotto sarebbero diffuse ancora di più. Ma non lo possiamo sapere. E quello che vediamo è che dopo decenni di debunking le fantasie di complotto sono arrembanti, quindi come minimo il debunking non immunizza il corpo sociale da questo tipo di fenomeni.
Io critico anche lo stile del debunking, il “burionismo”, questa posa aggressiva e polemica che poi trasforma ogni confronto in una sorta di sfida all’O.K. Corral tra il debunker e il cospirazionista. Ma una qualche forma di debunking è necessaria: io stesso nel mio libro faccio debunking dall’inizio alla fine, ma in un altro modo, credo: non mi limito a fare quello, non mi illudo che se in un capitolo smonto le scie chimiche allora chi ci crede si rende conto che è una sciocchezza. Cerco di costruire una narrativa multilivello: parto dai nuclei di verità di quelle fantasie di complotto, cerco di capire perché funzionano e cerco di capire come costruire una narrazione che in qualche modo susciti lo stesso incanto delle fantasie di complotto.
Con questa ricerca dell’incanto non c’è il rischio di portare a una sorta di sfiducia, a un “sono tutte storie, non val la pena credere a nessuna”?
La strategia che usavamo negli anni Novanta poteva andare bene con i media di quell’epoca. Oggi è tutto ultrarapido e più confuso, è un affastellarsi continuo di segni e storie e probabilmente l’uso del falso è controproducente. Oggi bisogna cercare di raccontare storie che tengano insieme spirito critico e incanto, spirito critico e meraviglia. Storie che però non siano quelle che usavamo negli anni Novanta come Luther Blissett Project. Anche perché molto probabilmente lo stesso QAnon è partito da una burla: una delle ipotesi più accreditate – e quella che mi ha portato a studiare più da vicino il fenomeno – è proprio che sia partito come una beffa, una falsa fantasia di complotto per far capire quanto i seguaci di Donald Trump credano a qualsiasi cosa… ora, se l’intento è stato quello ha avuto un ritorno di fiamma notevolissimo!
Di solito si parla di ‘teorie del complotto’, mentre qui stiamo parlando di ‘fantasie di complotto’, termine che lei utilizza per evitare che la critica ai cospirazionismi porti a una cieca fiducia nelle autorità.
Quelle di cui stiamo parlando non sono delle teorie, ma delle fantasticherie, delle narrazioni che si presentano come risultato di inchieste ma non lo sono. L’espressione “teorie del complotto” è ambigua: in inglese ‘theory’ ha anche il significato di illazione, mentre in italiano è nobilitante, conferisce solidità. ‘Conspiracy theorist’ in inglese è un raccontaballe, ma se viene tradotto con ‘teorico del complotto’ beh, è un teorico, uno che studia.
In sé non c’è nulla di male nell’avere una teoria su un complotto perché i complotti veri esistono: anche i primi che dissero che la bomba a Piazza Fontana l’avevano messa i fascisti e non gli anarchici proponevano una teoria che poi si è rivelata vera, anche in sede processuale.
Teoria del complotto è quindi un concetto fallato che crea dei malintesi. Propongo di sostituirlo con due concetti diversi: quella su Piazza Fontana era un’ipotesi di complotto che non parte dall’idea che tutto quello che avviene sia parte di un piano preordinato, che ci sia un complotto universale, che tutta la realtà sia un velo come in Matrix. Un’ipotesi di complotto è specifica: un complotto è molto banale, basta che almeno due persone si mettano d’accordo tra di loro all’insaputa di una terza per nuocerle. Avviene tutti i giorni in tutti gli ambiti: il problema di molti che si oppongono al cospirazionismo è che scartano anche le ipotesi di complotto.
Anche nelle fantasie di complotto ci sono comunque dei nuclei di verità che però di solito non vengono presi in considerazione.
Vengono presi in considerazione di rado e in maniera inadeguata o comunque insufficiente: nell’urgenza di contrastare le fantasie di complotto ci si concentra sulla denuncia, sul fatto che sono false e si arriva a trattare chi ci crede come un matto o un deficiente. Nel libro scrivo che nessuno può scagliare la prima pietra perché i bias cognitivi che portano a credere in una fantasia di complotto li abbiamo anche noi.
Soprattutto non si tiene conto del fatto che il malessere che si esprime tramite la fantasia di complotto è un malessere vero che ha una sua fondatezza. Continuamente ci viene detto che la società è sull’orlo del precipizio e poi non si fa nulla: prendiamo la recente Cop26 a Glasgow: la situazione è talmente grave che i potenti della terra si devono riunire, poi questi incontri si concludono con proclami roboanti e un nulla di fatto. Si crea quel “doppio legame” che Gregory Bateson avrebbe definito schismogeno, che crea schizofrenia.
Dobbiamo invece partire dal fatto che le fantasie di complotto colmano dei vuoti lasciati dal ritrarsi di un pensiero critico verso la realtà così come è. Se le persone non trovano una critica della società capitalistica, una critica radicale ma fondata, ne troveranno una radicale ma infondata.
Per questo le fantasie di complotto sono funzionali allo status quo?
In fondo sono stabilizzanti: sono dei diversivi. Abbiamo persone che provano rabbia verso lo status quo e invece di impegnarsi in maniera feconda e sensata, vengono portate in direzioni in cui le loro energie vengono dissipate.
Perché non c’è più questa critica verso la società?
I movimenti sociali che erano “deputati” a esprimere questo tipo di critiche sono stati o repressi manu militari – sono stato al G8 di Genova e ho esperienza sulla pelle di questa cosa – oppure sono stati integrati, annacquati, omologati, addomesticati.
Lo schieramento politico che storicamente dovrebbe criticare il capitalismo, la sinistra nata dal movimento operaio, si è convertito in gran parte all’andazzo neoliberista post-thatcheriano oppure è diventato irrilevante. Le tecniche del dominio si sono affinate con un uso dei media che consolida l’ideologia dominante. Ci sono uno scoramento e una depressione di massa, una atonicità della maggior parte delle persone che ha sposato il fatalismo: “In questa società ci sto male ma è l’unica che c’è”. Margaret Thatcher è passata alla storia per due frasi: una è “There’s no such thing as society, there are individual men and women” e l’altra è “There is no alternative”, al capitalismo naturalmente. Due frasi distopiche ma che hanno fotografato lo status quo e il consenso che si è affermato da allora.
Non si rischia di prenderla un po’ troppo alla lontana, se per affrontare le fantasie i complotto bisogna cambiare la società capitalistica e neoliberista?
Intanto bisogna fare dei passi in quella direzione: non è che il sistema si cambi da un giorno all’altro e nemmeno da un anno all’altro. Ma sostituire la moneta cattiva con quella buona, dei surrogati di lotte con delle lotte vere già toglie ossigeno al cospirazionismo. Non è tanto pensare che finché non finirà il capitalismo non ce ne libereremo, ma se ne può diminuire la portata e l’influenza.
Mi immagino che leggendo questa parte dell’intervista qualcuno alzerà le spalle commentando che “è sempre colpa del neoliberismo”.
Se uno guarda, il mondo narrativo delle fantasie di complotto riguarda i settori della società che il neoliberismo ha colpito più duramente: quasi sempre troviamo la salute, con l’aziendalizzazione della sanità pubblica e la farmaceutica in mano a poche multinazionali. Questo “giochino” lo potremo fare con un sacco di altre fantasie di complotto per scoprire che si svolgono in settori dove il neoliberismo ha cambiato di più le carte in tavola.
Per QAnon?
QAnon se ci pensiamo ha avuto la sua massima diffusione nella provincia americana più atomizzata, dove il legame sociale è maggiormente disgregato, spesso in città dove la deindustrializzazione ha creato delle terre di nessuno. Le fantasie di complotto che hanno trovato un conglomerato in QAnon riflettono una fortissima precarietà dell’esistenza.
I seguaci di QAnon ritrovano una forma di comunità che a loro manca.