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Per una giustizia che non sia soltanto sbarre

All’Usi si parla oggi della giustizia riparativa, nella quale si mette al centro il confronto tra vittima e reo. Ne parliamo con l’ex pg Bruno Balestra

(Ti-Press)
2 ottobre 2021
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«Un modo diverso di guardare il mondo, capace di cambiare anche la giustizia». L’ex procuratore generale Bruno Balestra descrive così la giustizia riparativa, della quale si parlerà oggi pomeriggio all’Università della Svizzera italiana (vedi sotto). L’idea è quella di individuare forme della giustizia «che non sono affatto alternative, ma complementari a quella penale, e permettono di affrontare il dolore della vittima e la sua relazione con il reo, che a sua volta viene responsabilizzato».

Nell’immaginario collettivo, il procuratore è colui che la gente la fa mandare in galera. Cosa c’entrano la ‘riparazione’ e il dialogo? Le daranno del buonista.

Il buonismo non c’entra nulla, come non c’entra una visione banalizzata della giustizia basata su concetti fuorvianti come quello di perdono. Il punto è che dopo tanti anni ho imparato a sentire che anche quando si ha a che fare con un colpevole e una vittima certi, la giustizia non può esaurirsi nella procedura penale. Il sistema è reocentrico: per evitare la vendetta lo Stato sostituisce la vittima nel relazionarsi con chi delinque, ma così facendo la riduce tutt’al più a un mezzo di prova, escludendola come essere umano. La vittima resta sola con i suoi interrogativi e la sua sofferenza, si chiede ‘perché è capitato a me?’, ‘forse ho sbagliato qualcosa io?’. Allo stesso tempo il colpevole è consegnato alla pena, isolato a sua volta dalla piena comprensione di quel che ha fatto, che è davvero possibile solo riconoscendo l’umanità della vittima e quindi la propria.

Alla base della giustizia riparativa dunque sta il dialogo tra vittima e colpevole. Ma come funziona?

A differenza della mera conciliazione extragiudiziale – quella forma di negoziato che a volte si svolge davanti a un giudice per trovare un accordo e un indennizzo –, la giustizia riparativa prevede un incontro più profondo tra le parti. Il film che vedremo oggi si intitola ‘Je ne te voyais pas’, ‘Non ti vedevo’: questo dice l’aggressore all’aggredito, aprendo finalmente gli occhi su chi ha davanti. Da qui nasce un dialogo per uscire ciascuno dalla sua bolla. Per la vittima può servire a ricucire certi strappi interiori, mentre chi ha commesso un delitto vedrà le sue conseguenze in un certo senso ‘incarnate’, e questo, oltre a educarlo alla responsabilità – concetto chiave di questo tipo di giustizia – contribuirà a far precipitare le recidive. In questo riconoscimento reciproco, che deve avvenire in modo volontario e non essere legato a sconti di pena o altri interessi personali, obiettivo non è il perdono ma il riconoscimento dell’altro e la ricostruzione di qualcosa che si era rotto.

A che punto siamo in Svizzera e in Ticino?

Purtroppo qui non ci sono esempi di giustizia riparativa, se non limitatamente a qualche esperienza di mediazione a livello minorile, in alcuni cantoni. Il Parlamento deve ancora decidere che spazi e modalità riconoscere alla cultura della giustizia riparativa nel nostro Paese.

E altrove?

Un grande esempio è venuto dalla Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica. Questa ha permesso di parlare di quanto commesso durante l’Apartheid da ognuna delle diverse fazioni senza il timore di una pena, e ammettere una verità reciproca. Questo processo ha contribuito attivamente a evitare che le tensioni degenerassero in vendette di massa e in una guerra civile.

Si muove qualcosa anche in Europa?

Sì, l’Europa e anche l’Onu da un ventennio emanano direttive e raccomandazioni. Il film parla ad esempio anche della realtà belga, dove la mediazione riparativa è consolidata. In Italia ho potuto assistere direttamente a esperienze illuminanti che coinvolgono i minori, ma ci sono anche gruppi hanno permesso l’incontro di terroristi con le loro vittime. Anche in questo caso – del quale abbiamo avuto un bell’esempio a Lugano, con la conferenza dell’ex Br Adriana Faranda insieme alla figlia di Aldo Moro, Agnese – lo scopo non è il perdono, ma il riconoscimento reciproco e dunque il superamento di quel rapporto vittima-carnefice che in modi diversi intrappola entrambi. L’idea, ancora una volta, è quella di scorgere l’umanità nell’altro.

Quella della giustizia riparativa si direbbe una novità nel panorama del diritto. Non teme che certi esperimenti possano condurre al fallimento?

Intanto, non è vero che gli elementi di questa giustizia sono una novità. Li ritroviamo in pratiche tribali ancestrali e ne troviamo spunti già nel codice di Ur-Nammù, che anticipa di tre secoli quello di Hammurabi e dunque la cosiddetta legge del taglione. Quanto ai risultati, ho visto coi miei occhi quanto possono essere efficaci certe pratiche in termini di riabilitazione e prevenzione di ulteriori atti criminali.

Ma la giustizia, dirà qualcuno, è un’altra cosa: leggi, infrazioni e pene.

Come detto, la giustizia riparativa non vuole sostituire quella penale, ma affiancarla. Perché la giustizia penale ‘vede’ solo una parte del problema, e lo tratta in maniera “meccanicistica”. La giustizia riparativa allarga lo sguardo, come in uno stupendo saluto zulù nel quale una persona dice all’altra “io ti vedo” e si sente rispondere “allora io esisto per te”.

Bello, ma oggi vanno più di moda gogne e manette.

Sicuramente i grandi cambiamenti nel mondo inducono una paura diffusa che si traduce in chiusura, nell’invocare vecchie abitudini, muri e punizioni draconiane. Però non serve: non si fa che inserire ognuno di noi in un sistema di riflessi pavloviani, in cui a un’azione corrisponde una carezza e a un’altra un ceffone, col risultato di deresponsabilizzare gli individui e sacrificarne la dimensione umana. Penso però che prima o poi sapremo superare questo sistema astratto, meccanicistico e iperrazionalista, un po’ come è successo con la scienza quando ha compreso la relatività e accettato l’indeterminazione. Sul piano umano questo corrisponde alla consapevolezza che siamo ciò che siamo sempre in relazione agli altri, e che le nostre azioni – reati inclusi – sono espressione non solo di libero arbitrio, ma anche di abitudini, intuizioni ed emozioni.

ALL’USI

Cineforum e riflessioni sulla giustizia riparativa

Si terrà oggi pomeriggio all’Università della Svizzera italiana a Lugano il dibattito/cineforum dedicato alla visione del film ‘Je ne te voyais pas’, del regista svizzero François Kohler, per la prima volta con sottotitoli in italiano. L’appuntamento è all’Auditorium Campus Ovest, alle ore 14.30. Dalle 16 parleranno di giustizia riparativa, oltre all’ex pg Balestra: la Consigliera agli Stati Marina Carobbio; Mauro Mini, già Presidente della Corte dei reclami penali del Tribunale d’appello; Chiara Perini, professoressa associata di diritto penale all’Università degli studi dell’Insubria. L’iniziativa è proposta dall’Istituto di diritto e da quello di argomentazione, linguistica e semiotica. Modera Lorenzo Erroi.