Il Tribunale amministrativo federale riconosce il caso di rigore a una cittadina delle Mauritius per motivi di genere. Sentenza storica per il diritto d'asilo
Una persona transgender delle isole Mauritius potrà restare in Svizzera, perché il suo Paese d’origine la discriminerebbe e perché non le sarebbero garantite le cure che sta seguendo per il cambio di sesso. Lo stabilisce una sentenza del tribunale amministrativo federale (Taf), ribaltando la decisione negativa della Segreteria di Stato della migrazione (Sem). Un caso destinato a costituire un importante precedente.
La donna aveva sottoscritto un’unione domestica registrata nel 2014 – quando era ancora socialmente un uomo – e aveva ottenuto un regolare permesso di soggiorno nel canton Vaud. Nel 2016 ha iniziato il percorso di riassegnazione di sesso (quello che con espressione più immediatamente comprensibile, ma ritenuta erronea da esperti e comunità Lgbtq è noto come ‘cambio di sesso’). Il compagno, inizialmente d’accordo con la scelta, ha poi avuto crescenti difficoltà nell’accettare la transizione. La coppia si è dunque separata e l’unione è stata sciolta nel 2017. Nel frattempo – anche a causa dei molti interventi chirurgici subiti – la ricorrente ha perso il suo lavoro nel settore sanitario, finendo in assistenza. Secondo la Sem il quadro complessivo avrebbe giustificato un respingimento alle Mauritius: non è stata sposata per oltre tre anni e la situazione laggiù non sarebbe poi così grave per i diritti di genere.
Di tutt’altro avviso il Taf, come d’altronde l’Ufficio controllo abitanti del Cantone di domicilio: la donna rischierebbe di essere abbandonata a metà delle terapie per la riassegnazione di sesso, di essere perseguitata dalla società e discriminata dalla famiglia. Peraltro “non è nemmeno certo che possa rimpatriare, dato che la sua identità e il suo aspetto non corrispondono più ai connotati iscritti nel passaporto”, si legge in un comunicato. Inoltre, pur essendo in assistenza, la trans si sta impegnando in “diverse formazioni e misure d’integrazione, tra cui un programma di reinserimento che potrebbe sfociare in un contratto di lavoro di alcuni mesi”. Il suo sarebbe dunque un caso di rigore, uno di quelli per i quali la Legge sugli stranieri prevede la possibilità di rilasciare un permesso per evitare una situazione di estrema gravità. Se poi la ricorrente dovesse continuare a dipendere dall’assistenza la sua pratica potrà essere riesaminata periodicamente, mentre la Sem può ancora impugnare la sentenza presso il Tribunale federale.
Nella sentenza, il Taf sottolinea come nell’arcipelago al largo del Madagascar manchino spesso medicinali e servizi terapeutici per la riassegnazione, un iter lungo e molto pesante per chi decide di sottoporvisi: “Senza trattamento ormonale e senza la possibilità di ricorso puntuale a visite psichiatriche”, la donna “sprofonderebbe di nuovo in una grave disforia di genere”, ovvero un conflitto tra corpo e identità di genere. Il Paese, ricorda il tribunale sulla scorta dei dossier ufficiali e di quelli dell’Ong Avocats sans frontières, non riconosce la riassegnazione: la trans dunque “non sarebbe considerata donna e sarebbe obbligata a vivere ufficialmente come uomo in corpo di donna”.
La notizia raccoglie entusiasmo anche in Ticino. Dal punto di vista dei diritti umani, la sentenza va infatti ben oltre il singolo caso: «Si tratta di un importante segnale d’apertura che contribuisce a ripensare e ampliare il diritto d’asilo», commenta Gabriela Giuria Tasville, direttrice della Fondazione Azione Posti Liberi, che con la sua rete giuridica opera a favore dei richiedenti asilo: «Questo diritto si basa infatti ancora sui principi stabiliti dalla Convenzione di Ginevra nel 1951, e quindi tende a riconoscere la difesa di chi proviene da situazioni di conflitto e persecuzione politica, ma è meno aperto alla protezione contro le discriminazioni di genere». Oltre ad ampliare il compasso dei casi di rigore, la sentenza «rimette in discussione certe decisioni della Sem, che ad esempio, a chi sarebbe perseguitato nel suo villaggio d’origine perché gay, dice di rientrare lo stesso e stabilirsi semmai in una città più grande». Per Giuria d’altronde «quella appena giunta è una buona notizia non solo per gli stranieri, perché testimonia di un cambio di mentalità del quale beneficia l’intera comunità Lgbtq». Tornando ai richiedenti asilo, «l’auspicio è che oltre a questa si arrivino a riconoscere anche altre potenziali vulnerabilità che giustificano la permanenza in Svizzera, per esempio nei casi di migranti costretti a lasciare il loro Paese per le conseguenze del cambiamento climatico».
Saluta con favore la decisione del Taf anche Eleonora Rubrichi, militante dell’associazione Imbarco immediato: «Senz’altro assistiamo a un passo avanti importante nella comprensione delle discriminazioni subite in certe realtà dalle persone transgender». La sfida è doppia, «perché da una parte ci sono comunità straniere culturalmente più ostili della nostra, che negli ultimi anni ha conosciuto un importantissimo cambio di mentalità; ma anche perché perfino tra gli svizzeri a volte i migranti e le migranti transgender devono scontare un doppio stigma: quello di genere – magari con lo stereotipo della prostituta in calze a rete e tacchi a spillo – e quello legato al fatto di essere stranieri. Un problema dovuto anche all’irresponsabilità di certi media, che quando viene commesso un reato spesso enfatizzano allo stesso tempo le origini straniere e l’essere trans del presunto colpevole, sebbene si tratti di informazioni del tutto irrilevanti». Per Rubrichi gli sforzi di tutti dovrebbero andare in direzione contraria, «affinché una persona possa essere riconosciuta come donna, come individuo, e non sempre e anzitutto come trans e come straniera».
Argovia: possibile
non dichiarare il genere
Intanto è dalla Svizzera tedesca che giunge una sentenza in favore delle persone non-binarie, quelle cioè la cui identità di genere non si adegua strettamente alla dicotomia maschile/femminile. La decisione riguarda un cittadino rientrato dalla Germania, Paese nel quale aveva chiesto e ottenuto di sopprimere la registrazione del genere allo stato civile. Lo stesso diritto – quello di non dichiararsi né maschio né femmina di fronte allo Stato – era stato da lui rivendicato al rientro in Argovia, ma il dipartimento competente aveva rifiutato la richiesta per ragioni di “ordine pubblico”. Ricorrendo al Tribunale cantonale, la persona ha contestato il labile legame tra il dirsi uomo o donna e l’ordine pubblico e ha difeso come prioritario il rispetto della vita privata e il divieto di discriminazione, entrambi protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il tribunale le ha dato ragione.