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Emergenza lavoro, ‘Ci vuole una strategia della solidarietà’

Nel quarto trimestre dell’anno sono andati persi - solo in Ticino - 10 mila impieghi a fronte dei 23 mila andati in fumo a livello nazionale

(archivio Ti-Press)
26 febbraio 2021
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L’emergenza economica causata dal coronavirus sta presentando il conto, anche se ancora parziale: nel quarto trimestre dell’anno scorso il numero di impieghi in Svizzera si è attestato a 5,14 milioni, lo 0,4% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019, con una perdita di 23 mila posti. Il Ticino è la regione che presenta la contrazione di gran lunga più marcata: -4,4%, con una emorragia di 10 mila posti di lavoro. Di fatto quasi la metà del saldo negativo nazionale è attribuibile al mercato del lavoro ticinese. Un vero e proprio dramma sociale si sta delineando all’orizzonte.

Stando ai dati diffusi dall’Ufficio federale di statistica (Ust) tutte le altre zone del Paese subiscono flessioni moderate, con un massimo negativo del -0,8% e in un caso (quello della Svizzera Orientale, che comprende anche i Grigioni) anche con un valore positivo (+0,8%).

Il dato a sud delle Alpi si smarca quindi notevolmente ed è da attribuire in particolare alla diminuzione dei posti nel settore terziario, che si è attestata al 5,1%. Meno forte (anche nel confronto con il resto della Confederazione) è stato per contro l’arretramento nel ramo secondario: -2%, da confrontare con il -1,2% a livello svizzero.

Tornando all’ambito nazionale, la flessione è stata più marcata per le donne (-0,6%, -14 mila posti) che per gli uomini (-0,3%, -9 mila). A livello di singoli rami economici, spiccano il -15,2% annuo di alberghi e ristoranti, pari a 41 mila posti in meno, nonché il -7,8% del segmento attività di ricerca, selezione e fornitura di personale (-10 mila posti). Cali sensibili sono stati osservati anche nelle attività manifatturiere (-8 mila; -1,2%) e nella costruzione (-6 mila posti; -1,6%). In crescita si sono per contro mostrati i comparti sanità e assistenza sociale (+21 mila; +2,8%), nonché il ramo del commercio al dettaglio (+7 mila; +2,3%).

Calcolata al netto delle variazioni stagionali l’occupazione totale nel periodo ottobre-dicembre ha segnato un incremento dello 0,1% rispetto a luglio-settembre (+6 mila posti), con una crescita nel comparto dei servizi (+0,4%, +14 mila) a cui fa da contraltare la flessione nel ramo secondario (-0,3%, -3 mila). Espresso in equivalenti a tempo pieno il volume di impieghi nel quarto trimestre ammontava complessivamente a 4 milioni di posti (-0,4% su base annua).

L’impatto della crisi è riscontrabile anche sui posti liberi, scesi a 65’400, con una perdita di 12’600 rispetto allo stesso periodo del 2019 (-15%). A soffrire sono fra l’altro in particolare i comparti attività manifatturiere (-23%) nonché i servizi di alloggio e di ristorazione (-33%).

Le prospettive di impiego si sono offuscate, annota l’Ust sulla base dei sondaggi relativi alla propensione delle imprese ad ampliare gli organici. Il relativo indicatore è sceso (su base annua) del 2,4% a 1,01 punti, con un record negativo nel ramo alberghi e ristoranti (0,89 punti, -10,9%). A livello regionale il Ticino presenta il dato peggiore, con 0,98 punti, e una contrazione più forte della media, pari al -2,9%.

La reazione di unia

‘Un mercato fragile e precario’

«I dati dell’Ust dimostrano ancora una volta che il mercato del lavoro ticinese, già fragile rispetto al resto della Svizzera prima della crisi sanitaria, ora sta mostrando tutti i suoi limiti», afferma Giangiorgio Gargantini, segretario cantonale del sindacato Unia. «Si stanno creando le premesse per una crisi sociale molto forte. Il rischio grosso è che quando le misure di aiuto e di contenimento saranno eliminate potremmo accorgerci che abbiamo lasciato indietro troppe persone», continua Gargantini. «Non è un mistero che questa pandemia ha ampliato le disparità sociali: a pagare la fattura sono i lavoratori più precari e le loro famiglie. A livello economico, a causa delle riduzioni salariali causate dal lavoro ridotto, ma anche sulla salute perché si risparmia purtroppo anche sulle cure che non vengono prestate», continua il sindacalista di Unia.

L’Ufficio cantonale di statistica (Ustat) ha reso noto che il numero di lavoratori frontalieri è cresciuto di 523 unità nello stesso trimestre. Ora sono più di 70 mila. C’è una correlazione tra i due fenomeni?

Se c’è una correlazione è data solamente dal fatto che si tratta di una corsa alla precarizzazione del mercato del lavoro. L’unico dato certo è la perdita secca di posti di lavoro, sia per i residenti sia per i lavoratori frontalieri. Un altro aspetto che preoccupa è che già lo scorso autunno era emerso che la quasi totalità dei posti di lavoro persi in Ticino (circa 6mila) era a discapito delle donne lavoratrici. Ora c’è la conferma che se il mercato del lavoro sembra reggere a livello nazionale, in Ticino è molto fragile.

Una fragilità che il sindacato denunciava già ben prima della drammatica pandemia che stiamo affrontando.

E questo nonostante le misure di contenimento della deriva economica, vale a dire il lavoro ridotto e le altre misure messe in campo dalla Confederazione. Il buco e quindi le conseguenze negative in Ticino sono già molto visibili. Pensiamo al settore turistico o agli interinali e a tutti i lavoratori stagionali che non hanno trovato impiego. Sono tutti posti di lavoro persi ma che poi non risultano nei dati ufficiali sulla disoccupazione.

Non sappiamo cosa succederà tra qualche mese, quando la situazione sanitaria sarà sotto controllo. Corriamo il rischio di portarci questa pesante eredità sociale ancora a lungo se l’economia non ripartirà rapidamente?

Si rischia un enorme problema sociale oltre che economico. Nei giorni scorsi sei sindacati svizzeri hanno scritto al Consiglio federale per chiedere una ‘strategia della solidarietà’. Purtroppo non siamo ancora usciti dall’emergenza sanitaria, ma non dobbiamo contrapporre l’economia al diritto alla salute. Sono due facce della stessa medaglia. Per questo chiediamo che le misure sociali ed economiche rimangano anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria proprio per evitare un’altra crisi. Compensazione al cento per cento del lavoro ridotto e prolungamento del diritto alle indennità di lavoro ridotto; nessuna sanzione per chi ricorre all’aiuto sociale per il lavoratori migranti in termini di rinnovo dei permessi di soggiorno. Ribadiamo, infine, quanto chiesto all’inizio dell’emergenza: divieto di licenziamento per quelle imprese che hanno beneficiato di un aiuto statale.

La proposta dell’Ocst

‘È necessario mantenere il partenariato sociale’

«È certamente il primo contraccolpo della crisi del coronavirus e la preoccupazione per le conseguenze sociali è forte», afferma Renato Ricciardi, segretario cantonale dell’Ocst. Si tratta di quasi la metà dei circa 23 mila impieghi persi a livello nazionale nel quarto trimestre dell’anno rispetto alla fine del 2019. «C’è una perdita importante di posti di lavoro nei servizi turistici, ma anche nel settore manifatturiero che essendo fortemente orientato all’export sta avendo effetti molto importanti sull’occupazione a causa delle restrizioni in vigore anche all’estero», continua Ricciardi. «È anche vero che la perdita di posti di lavoro in Ticino è legata a ristrutturazioni aziendali che hanno preceduto questo anno di crisi economica e sanitaria».

Cosa potrà succedere in futuro se non ci sarà una ripresa economica vigorosa e rapida tra qualche mese, quando l’emergenza sanitaria sarà, speriamo, solo un brutto ricordo?

Non potrà che essere più grave. Non credo che la ripresa sarà così veloce come auspicato. E questo probabilmente sarà un lascito che peserà per i prossimi anni.

C’è però il dato sul personale frontaliero in crescita ora a 70 mila unità.

Bisogna tenere conto che non è automatica la perdita di un posto di lavoro con la perdita del permesso da frontaliere. Sono dati che bisogna prendere sempre con molta attenzione. Tra chi ha perso il posto di lavoro ci saranno oltre che residenti anche molti frontalieri. Piuttosto, come accade per i lavoratori interinali, i frontalieri sono sempre stati storicamente una valvola di sfogo per situazioni congiunturali negative e utilizzati dalle imprese per cercare di compensare puntuali difficoltà economiche. È di fatto disoccupazione che ‘esportiamo’. L’incognita più che dal settore secondario è data dal comparto impiegatizio fortemente toccato dal fenomeno del lavoro a distanza. Una modalità di produzione che non esisteva prima e che bisognerebbe quanto prima regolamentare. Questo è un punto che come sindacato stiamo affrontando e sarà per l’Ocst un tema congressuale. Un fenomeno, quello del telelavoro, che complica anche il lavoro sindacale. Di fatto non si riesce più ad avere un contatto diretto sui luoghi di lavoro.

Come organizzazione sindacale cosa chiedete alle autorità pubbliche? È vero che molto è stato fatto con i crediti Covid e i casi di rigore.

La richiesta principale che noi facciamo è che queste dinamiche devono essere partecipate o gestite. Le aziende che si trovano in queste nuove situazioni devono coinvolgere chi ha la rappresentanza dei lavoratori. Noi chiediamo che gli effetti della crisi proprio sull’occupazione e sul modo di lavorare siano un modo per coinvolgere tutte le parti sociali, autorità pubblica compresa. Bisognerebbe, per esempio, che le imprese che stanno ricevendo aiuti pubblici si impegnassero a non licenziare. Nella prima fase della crisi, l’anno scorso, la finestra di crisi è stata un’occasione per un confronto serio e serrato tra lo Stato e le parti sociali (sindacati e imprese). Auspico che questo confronto si ripeta e venga mantenuto anche in futuro quando magari sarà la crisi sociale sarà – speriamo di no – ancora più forte.

Crollo del Pil meno forte del temuto: -2,9%

Intanto migliorano le previsioni sulla ripresa dell’economia svizzera. Il Kof, il Centro di ricerca del Politecnico di Zurigo, segnala che il suo barometro congiunturale indica un aumento di 6,2 punti a 102,7. Un dato che torna a essere a un livello più alto della media pluriennale. A maggio scorso, a titolo di paragone, era a 49,6 punti.

Stando invece agli esperti della Seco, la Segreteria di Stato dell’econonia, la contrazione del Pil nel 2020 è stata del -2,9%. Una percentuale più bassa di quanto ipotizzato in primavera.