La società privata controllata dalla posta francese imporrebbe condizioni di lavoro atroci ai suoi autisti. Un'inchiesta
Un giorno qualsiasi, prima mattina. Dlin-dlon. Il tempo di sfilarti lo spazzolino di bocca, mettere una vestaglia e correre ad aprire. Dlin-dlon. Apri la porta, trovi un pacco sullo zerbino e vedi un furgone scalcagnato che se ne va. “Poteva almeno salutare”, pensi. Secondo gli autisti della Dpd coi quali abbiamo parlato l’altro giorno, non è maleducazione: è sfruttamento. «Lavoriamo circa 12 ore al giorno, si arriva anche a 150 consegne, la maggior parte degli straordinari non ci viene pagata, io devo rispettare tempi di meno di due minuti a consegna: lo scanner che uso mi geolocalizza e misura i miei tempi. Non mi posso mai fermare», spiega Alex – nome ovviamente di fantasia – per farci capire come funziona il più grande gruppo privato di spedizione in Svizzera, il secondo in Europa dopo Dhl. Lui ci lavora. O meglio: lavora per un ‘partner’ della Dpd, perché di per sé l’azienda di Buchs (San Gallo) non ha nemmeno un furgone. Si affida a un’ottantina di partner e circa ottocento autisti in tutta la Svizzera. Dai nastri trasportatori di ciascun magazzino – ce n’è uno anche in Ticino – ogni mattina gli autisti devono smistare i loro pacchi e partire al volo. Secondo il sindacato Unia, che nei giorni scorsi ha denunciato la situazione, è l’inizio di una lunga serie di violazioni dei diritti dei lavoratori: niente pause, ritmi massacranti, ore non retribuite, sorveglianza. E se ti lamenti ciao, avanti un altro. Dpd specifica che “i fattorini sono dipendenti dei nostri partner contrattuali, che sono responsabili per il rispetto degli orari di lavoro e delle pause”, e che se sapessero di abusi concreti avrebbero già preso provvedimenti (vedi sotto). Ma i fattorini non sono d’accordo, e la protesta sta montando in tutta la Svizzera.
«Ci sono giorni nei quali non si ha neanche il tempo per andare in bagno, perché con la tabella di marcia che abbiamo basta che una persona un po’ anziana tardi ad aprire la porta per farci accumulare troppo ritardo», racconta un altro autista Dpd, lo chiameremo Bruno. «Ci può capitare di dover mangiare dalla ‘schiscetta’ appoggiata sulle gambe mentre guidiamo, e naturalmente se succede qualcosa sono affari nostri. A chi lavora a ore, vengono detratti dal conteggio anche uno specchietto rotto o un pacco un po’ ammaccato». «Ho visto ragazzi appena arrivati perdere dieci chili in pochi mesi», aggiunge Alex, «uno in prova è scappato per la disperazione durante una consegna, un altro tremava tutto. Naturalmente i ragazzi e gli stagisti in disoccupazione sono quelli che fanno più comodo, perché pagandoli a ore puoi anche scalargliele più facilmente».
Un contratto collettivo ci sarebbe, ma secondo Unia e i nostri testimoni gli abusi lo rendono lettera morta. Nel migliore dei casi, fanno 3'600-3'800 franchi per un lavoro ben oltre il 100%. Si potrebbe ribattere che la colpa è di questi fantomatici partner, quelli insomma che mettono su il logo della Dpd sui loro furgoni, allungano ai dipendenti una divisa e via. Sta a loro rispettare i patti. «Ma si tratta di un sistema che parte dall’alto», prosegue Alex, «perché in realtà Dpd può riscontrare benissimo gli abusi guardando gli orari e le consegne registrati dai loro scanner. Gli stessi su cui ci sono arrivati messaggi per invitarci a non rispondere ai giornalisti (una circostanza che Dpd nega, ndr). È dalla sede centrale e da quelle cantonali che vengono gestite le nostre giornate, anche se in teoria lavoriamo per qualcun altro». I padroncini locali sarebbero «un ingranaggio intermedio che trasmette questo tipo di abusi, ad esempio trasferendo le penali per un pacco danneggiato o una consegna in ritardo sui lavoratori, in forma di ore scalate».
Per Alex «la situazione era così anche prima della pandemia, lo fanno per abbattere i costi del lavoro, è decisivo per offrire servizi più convenienti della Posta». «Però con il boom delle consegne dopo l’inizio della pandemia il problema è ancora peggiorato», aggiunge Bruno, «hanno accelerato perfino il nastro trasportatore in magazzino. Finisce che ce la prendiamo tra di noi, perché magari uno ha mancato il suo pacco». Le giornate a volte andrebbero dalle 6 di mattina alle 6 di sera, invece di durare le 8 ore e 20 minuti da contratto, «e con al massimo una specie di extra da poche centinaia di franchi, attraverso il riconoscimento solo parziale degli straordinari». I sintomi di una vita del genere, secondo Alex sono quelli che mostra sul corpo: eritemi, vene varicose. «Poi lo vedi, non riesco a stare qui seduto, sono sempre in agitazione». «Finisci per pensare ai pacchi anche quando dormi», attacca lì Bruno, «ci sono colleghi che con una vita così si sono giocati la famiglia». «Anche mio figlio mi rimprovera di non dargli abbastanza attenzione» conclude Alex, «ma io quando arrivo a casa alla sera sono distrutto, alle nove sono a letto. Una volta facevo altre attività, ora è impossibile. È un lavoro che non ti lascia energia vitale».
Il problema, se c’è, riguarda i «partner contrattuali»: sono loro che devono rispettare i contratti di lavoro firmati coi dipendenti. Questa è la spiegazione fornitaci da Michelle Korkmaz, Team leader comunicazione di Dpd. Orari, pause, numero di consegne non dipenderebbero dall’azienda, che peraltro «mette a disposizione dei partner modelli utili per la registrazione delle ore». In ogni caso, precisa la portavoce, «100-150 consegne rientrano nella norma per le regioni più densamente popolate della Svizzera. Nelle regioni di montagna o meno densamente popolate il numero di pacchi e indirizzi è conseguentemente inferiore».
Quanto al fatto che sia il sistema di gestione degli ordini – il famigerato scanner – a dettare il ritmo delle giornate, Korkmaz relativizza: «Il percorso dipende dalla pianificazione effettuata dal fattorino prima di iniziare il suo giro. Questa non viene imposta né dal cliente, né da Dpd. Quando effettuano tale pianificazione, autiste e autisti possono anche stabilire le loro pause e il ‘ritmo’ della loro giornata». Quanto allo scanner, «registra solo il ‘ciclo di vita’ del pacchetto», mentre «l’associazione dei dati al singolo fattorino non è possibile».
Ma veniamo alle penali che gli autisti si vedrebbero sottratte dallo stipendio. Per la team leader, le deduzioni sarebbero possibili «solo nel caso di grave e comprovata negligenza. Sappiamo che alcuni nostri partner riconoscono un bonus qualità» ai dipendenti, e «potrebbe venire trattenuto un importo per lo smarrimento di un pacco o il mancato rispetto delle istruzioni». Quanto alle penali per i partner, Dpd sarebbe «esplicita» nello stabilire che «non è permesso trasferirle sugli autisti: questo fa parte degli accordi. Quando veniamo a conoscenza di casi del genere, interrompiamo il rapporto commerciale». Eppure «non siamo a conoscenza di casi concreti»; «in caso di violazioni delle condizioni stipulate Dpd indagherà immediatamente e prenderà subito provvedimenti». Ma l‘azienda non sa nulla neppure di casi di burnout o di altri problemi fisici e psicologici.
L’impegno della società è ribadito sul fronte contrattuale: «Facciamo in modo che tutti coloro che si mettono a disposizione di Dpd, direttamente o indirettamente, possano godere del contratto collettivo di lavoro per i dipendenti dei fornitori privati di servizi postali. Abbiamo un nostro team che lavora esclusivamente per offrire consulenza ai partner» perché si rispettino le regole anche quando lavori e turni di consegna aumentano. «Inoltre, in passato abbiamo interrotto il rapporto con partner che non rispettavano le prescrizioni di legge».
Quanto allo scontro con Unia, Korkmaz è netta: il sindacato «ci ha mosso solo accuse generalizzate senza prove concrete. Potremo reagire solo quando ci saranno presentati fatti concreti e comprovati». Inoltre «i nostri partner sociali sono Syndicom e Transfair».
Quando raggiungiamo Enrico Borelli al telefono, sta tornando dal centro di smistamento Dpd di Möhlin (Argovia). «Stiamo organizzando passo dopo passo assemblee e nuclei sindacali. Abbiamo svolto centinaia di colloqui e raccolto un’infinità di testimonianze: un segno del coraggio degli autisti», che non si lascerebbero intimidire «da una repressione feroce», ci spiega il sindacalista di Unia. «La sfida è organizzare i lavoratori nonostante i sindacati come Unia in azienda non siano i benvenuti e il turnover enorme di personale renda la cosa particolarmente difficile». Il problema è che «questo tipo di situazioni si è venuto a creare all’interno di una sorta di triangolo di condizioni avverse: un diritto del lavoro che non tutela a sufficienza gli interessati e non previene il fenomeno dei subappalti selvaggi, lo stesso che vediamo anche nell’edilizia e nell’artigianato; un’azione ancora timida della magistratura, che spesso come in Ticino non ha neppure una sezione del lavoro presso il Ministero pubblico; infine i controlli insufficienti da parte delle autorità. Per questo il caso è esemplare di un intero sistema».
Aiuterebbe, spiega Borelli, «un’indagine come quella che a Milano permetterà di regolarizzare 60mila rider addetti alle consegne, o sentenze come quella di Ginevra, che ha stabilito che gli autisti che lavorano per Uber sono di fatto suoi dipendenti. Ma serve un’azione anche sul piano legislativo, e in ultima istanza quello che spesso manca è una cosa sola: la volontà politica». Può sembrare paradossale, ma «in un Paese come il nostro, dove tutto è rigidamente normato, si può essere licenziati senza giusta causa e si permette il proliferare di meccanismi di sfruttamento che ricordano situazioni ottocentesche. Lavoro liquido, scollegato dai diritti».
Numerose le violazioni contestate dal sindacato a Dpd: forme di lavoro gratuito – ore non retribuite –, pause negate, livelli salariali infimi, ritmi surreali, multe per ogni minimo errore, ipersorveglianza e vessazioni dalle pesanti conseguenze psicofisiche. Ma non sarà colpa dei padroncini – tre in Ticino, con oltre trenta dipendenti – più che di Dpd? «Questo è esattamente quello che la società vorrebbe far credere: siccome il datore di lavoro diretto degli autisti non è Dpd, spetterebbe a qualcun altro far rispettare i diritti. Ma il sistema di ordini, viaggi, controllo del lavoro è interamente centralizzato. I padroncini sono un anello intermedio: corresponsabili in certa misura dello sfruttamento, ma a loro volta ricattabili». Parliamo di «persone che spesso si appoggiano a un giro di parenti e conoscenti pur di far funzionare tutta la macchina».
Quanto agli autisti, «sono spesso persone con un passato migratorio o molto giovani, quindi disposti a tutto pur di avere un lavoro nel contesto economico attuale». Ma non è solo del loro destino che parla questa storia: «Sfruttandoli, Dpd riesce a fare concorrenza sleale sui prezzi delle consegne. Il rischio allora è che per restare competitivi anche altre aziende si spingano ad abbassare gli standard, con ricadute per i loro stessi dipendenti. Per questo sarebbe opportuno e importante che intervenisse anche la Postcom», l’autorità di vigilanza per il mercato postale «Ma la cosa imprescindibile è lo sviluppo di un’azione collettiva sindacale nel cuore dei luoghi di lavoro, un’azione capace di prendere di petto le vecchie e nuove situazioni di sfruttamento».
E poi c’è l’amarezza di sapere che «non parliamo di una qualsiasi società privata, ma di un colosso controllato da La Poste, quindi dallo Stato francese che in passato è stato spesso un riferimento per i diritti dei lavoratori. Col paradosso, come abbiamo visto in Svizzera romanda, di un gruppo che da noi sfrutta i suoi connazionali in qualità di frontalieri». Il tutto in un periodo che ha mostrato l’importanza strategica del sistema di consegna a domicilio, specie durante i lockdown: «Questi autisti sono tra gli eroi dimenticati della pandemia. Ora speriamo che ci si accorga anche di loro».