Intervista a Vittorio Nocenzi, fondatore del Banco del Mutuo Soccorso, e a Tony D'Alessio, erede di Di Giacomo. La storica band del prog stasera al Cinema Teatro
Espletate le pratiche doganali di chi passa il confine con gli strumenti, ieri da ‘Tondo’ era il giorno del Banco del Mutuo Soccorso, al piano di sopra del tempio del vinile a Maroggia per presentare il concerto che si tiene questa sera alle 20.30 a Chiasso, nel Cinema Teatro che per una sera diventa – restando ai luoghi sacri – santuario del rock progressivo non solo italiano. Il più brevemente detto Banco, ‘santificato’ internazionalmente dalla Manticore Records (etichetta degli inglesi Emerson, Lake & Palmer), si afferma tra il ‘72 e il ‘73 con il trittico o trilogia ‘Darwin!’, ‘Io sono nato libero’ e l’album di debutto chiamato amichevolmente ‘salvadanaio’ per via della copertina. Il ritorno, ‘Transiberiana’, nel 2019 a poco più di venticinque anni dall’ultimo album in studio (‘13’) e dopo un’eternità dall’esordio che portava il loro nome. Il salvadanaio torna sulla facciata di questo nuovo concept incentrato sul viaggio, arrivato sino a noi, band al completo.
Nella sala che va via via riempiendosi, Vittorio Nocenzi, (pianoforte, tastiere, voce), storico fondatore del Banco, siede al centro tra l’abbastanza storico Filippo Marcheggiani (chitarra elettrica, nel gruppo da più di vent’anni), Nicola Di Già (chitarra ritmica, non da poco), Fabio Moresco (batteria, ex Metamorfosi), Marco Capozi (basso, già Balletto di Bronzo) e Tony D’Alessio (voce, erede senza emulazioni dello scomparso Francesco Di Giacomo, vedi sotto).
Chiasso arriva giusto nel mezzo di un tour durante il quale la band sta riabbracciando il proprio pubblico. Ma non parlate a Nocenzi di ritorno: «I ritorni non mi sono mai piaciuti, non esprimono forza, ma nostalgia. E la ‘nostalgie’, detto alla tedesca, è una celebrazione di sconfitta. Credo che il prog non se ne sia mai andato». Non chiedetegli nemmeno se il prog sia o sia stato, come qualcuno disse, “il rock che va all’università”; perché, se anche fosse un complimento, lui detesta le etichette. «Capisco che siano una necessità per comunicare, ma la musica va ascoltata e non catalogata in generi, che sono ostacoli alla libera circolazione delle idee musicali e non hanno mai fatto del bene alla musica. La musica non si comunica scrivendo, ma ascoltandola e facendola».
Dunque, se proprio si deve definire il prog, allora potrebbe essere «quella parte del rock che rifiutava i cliché per sperimentare, rinnovarsi, accettare le sfide della curiosità e della conoscenza. Innazitutto tramite la composizione e fregandosene delle strutture obbligate. La musica è di più, è toccare il culo alle nuvole». E se la definizione non bastasse, c’è Da Vinci: «Leonardo diceva che “la pittura è mirabile scienza, la musica è sua sorella perché è figurazione dell’invisibile”. Sono le immagini del cuore, della parte spirituale che tendiamo a deridere. E parlo da laico. È l’anima, o chiamatela come vi pare, è lo spazio che include sogni, idee, progetti, senza i quali non esiste l’uomo».
C’è una regola che ha portato a ‘Transiberiana’: «Ho detto subito che era proibito imitare il Banco. Già dopo il successo dei primi tre album, ci imponemmo dei paletti: non rifare mai le stesse cose. La regola vale ancora». Nocenzi racconta che a Como si è comprato la sua prima cuffia da passeggio. Con quella ha riascoltato quest’ultimo lavoro dopo mesi. «Bello o brutto, ditelo voi. Quello che so è che l’ho trovato vero, ispirato, riconducibile al linguaggio usato dal Banco in cinquant’anni ma profondamente rinnovato. Il miracolo viene dall’averlo condiviso con questa band umanamente speciale».
Sul disco (e in generale sul prog) ci sarebbe anche una lezione sulla bellezza degli inciampi, sui tempi dispari, quelli «che ti tengono sospeso, non come i quattro quarti dell’Oktoberfest, o quelli che ti rincoglioniscono i discoteca». Per i meno esperti basti che ‘Transiberiana’ è «rock perché muscolare, per l’elettrico dei suoni, ma la scrittura è da musica sinfonica dell’Ottocento». E poi ci sono «la memoria del jazz, della musica popolare», e «la natura di concept tipica del prog, l’opposto della compilation di canzoni», da cui «la stessa libertà di un libro: ogni brano è un capitolo dello stesso racconto».
L’assenza di paletti per il Banco ha riguardato anche la svolta degli anni ‘80, nel rispetto per la musica leggera (“Bisogna capire se è leggera perché vuota o perché fa stare bene”, disse un tempo Nocenzi): «Mi ricorda di uno dei tanti delitti che ho commesso nella mia ormai lunga vita (ride, ndr). Non è il genere che garantisce la qualità della musica. È la qualità dell’ispirazione di chi la scrive che ne garantisce la qualità. Non mi metto la giacca della domenica e divento automaticamente Alain Delon. Se hai la pancia, l’avrai pure con la giacca della domenica». E quindi «quando scegliemmo di scrivere canzoni, fu una scelta epocale e drammatica. Pensammo a lungo se fosse il caso di passare da ‘Il giardino del mago’ a ‘Paolo Pa’. Capisco oggi i fan talebani che gridarono al tradimento. Ma avevamo percepito il cambiamento del modo di comunicare».
‘Transiberiana’ è un lavoro autobiografico. «Ed è giusto così» continua Nocenzi. «Sono ancora qui a parlare di musica dopo 5’500 concerti e mi sento un uomo privilegiato. L’ultimo privilegio che mi è stato dato è che dopo aver perso due compagni di vita speciali, il destino mi ha regalato il recupero del rapporto con mio fratello (Gianni Nocenzi, nel Banco fino al 1984, ndr) e lo scoprire nel mio terzo figlio, Michelangelo, il mio alter ego musicale».
I compagni che non ci sono più sono Francesco Di Giacomo, morto nel 2014, e Rodolfo Maltese, nella band da ‘Io sono nato libero’ fino al 2015. E quando Nocenzi parla di destino, si riferisce anche all’emorragia che lo colpì, nello stesso annus horribilis che riguardò Maltese e dalla quale si riprese dopo un coma. Guarda i compagni di viaggio e dice di non avere l’euforia di Bruce Willis in ‘Unbreakable’, unico sopravvissuto al disastro aereo: «Mi sento l’ultimo dei Mohicani, ma ho la fortuna di avere incontrato loro, e una famiglia che mi segue da sempre. Vedi intorno che si sono spente tante luci, vedi sull’iphone i numeri degli amici che non ci sono più. E l’idea di morire, devo confessarti che non mi gratifica affatto. Quando succederà lo dico subito, pensatemi parecchio incazzato. Perché sono innamorato della bellezza».
Alla fine, mettici che quelli di Tondo Music sanno cos’è un meet&greet coi fan, mettici che Nocenzi si concede a tutti (nel senso nobile del concetto), quando tutto è concluso c’è spazio per copie autografate e anche per la piccola Martina, che – complice il babbo, occhi di chi di prog si è cibato a pranzo e a cena – tiene in mano il grosso vinile insieme al fratellino per tutta la conferenza stampa e una volta al cospetto di nonno Banco gli fa ascoltare in anteprima assoluta i suoi sforzi di poetessa. Il selfie che ne consegue è quello del creatore di musica senza tempo (nel senso di minutaggio, anche) e la generazione dei tre minuti e trenta che stanno diventando sempre meno. Ma che forse qualcosa in più della musica, ieri, ha capito.
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È stato “la grande voce del prog italiano”, quella che si ricorda quando si parla di Demetrio Stratos e viceversa. Francesco Di Giacomo morì su una strada della provincia romana, alla guida della sua automobile in una notte di febbraio di quasi sei anni fa. Antidivo, carismatico, era l’immagine e la penna del Banco per gran parte dei testi. Sin dagli inizi, dall’incontro con Vittorio Nocenzi durante il Festival Pop di Caracalla del 1971. Chi oggi ne fa le veci, con l’umiltà dei grandi, è il campano Tony D’Alessio, arrivato a ‘Transiberiana’ partendo dal metal, passando per X-Factor con gli Ape Escape per sobbarcarsi un impegno non da poco.
«Più che di eredità, più che di responsabilità – spiega Tony alla ‘Regione’ – parlerei di onore. Ero amico e fan di Francesco, c’incontrammo la prima volta nel 1996». Il destino, che già si era messo di mezzo con Di Giacomo, si mise poi di mezzo con Nocenzi e, indirettamente, pure con D’Alessio: «Dopo la morte di Francesco, Vittorio mi disse che mi avrebbe chiamato e invece, il tempo di fare il primo concerto, si sentì male. Pensai che fosse tutto finito. Quando ero pronto a mettere una pietra sopra a un sogno, a gennaio del 2015, mi arriva una telefonata: era Vittorio, che non solo era uscito dal coma, ma era presente e lucidissimo. Di lì a poco mi annunciò agli altri».
Solo il tempo di prendere le misure – «La mia più grande difficoltà era smettere di piangere mentre studiavo i suoi brani, mentre cantavo le sue parole» – e ora Tony porta sul palco Francesco ogni volta: «Lo porto dentro di me, lui e lei sue parole, così come lo sento attraverso il suono della sua chitarra acustica, che suona ancora Filippo Marcheggiani». E lo fa con un’accortezza: «L’ultima delle mie intenzioni è quella di fargli il verso, mai mi è venuto in mente di fare la sua imitazione. Sarebbe una cosa di cattivo gusto. Sarebbe come imitare mio padre che non c’è più. Poi se qualcuno trova somiglianze in quello che faccio, la cosa mi riempie soltanto di gioia». Francesco Di Giacomo in pillole, per finire: «Quando penso a lui penso a una grande anima con un grande sorriso, e a una sensibilità decisamente fuori dal comune. Una di quelle anime che hanno il potere di cambiare il mondo».