Il risultato alle Federali rivela anche il disagio per la situazione economica. Pil e lavoro crescono, eppure il numero degli esclusi resta costante.
Come sta il lavoro in Ticino? C’è chi dice che tutto-va-bene-madama-la-marchesa, e chi invece dipinge scenari apocalittici. La realtà è fatta di dati complessi, difficili da leggere. Per capirla un po’ meglio abbiamo chiesto aiuto a Fabio Losa, economista della Supsi e coordinatore del gruppo di lavoro voluto dal Dipartimento delle finanze e dell’economia per riflettere sul mercato del lavoro ticinese. Spoiler: non va mica tutto bene.
Se guardiamo l’andamento economico dal 2010, vediamo un Ticino che cresce più degli altri cantoni per numero di aziende, Pil e persone occupate. Questa ‘Jobwunder’, però, nasconde una serie di punti deboli che relativizzano i benefici per i residenti e spiegano effettivi di disoccupati che restano più numerosi che nel resto della Svizzera.
Dal 2010 ad oggi, tre quarti dei nuovi impieghi creati sono andati a frontalieri o nuovi permessi B. Quindi l’occupazione è sì aumentata, ma solo in minima parte per i già residenti, determinando di fatto un numero di disoccupati che non si è ridotto – malgrado appunto la forte crescita – ed è rimasto nella fascia fra 10 e 14mila. Queste persone restano ai margini e i tempi di reinserimento si allungano: siamo la regione della Svizzera che ha la quota parte di disoccupati di lunga durata più elevata a livello nazionale, oltre a essere quella con più disoccupati giovani, insieme alla regione lemanica. Inoltre la crescita è stata per grandissima parte in occupazione a tempo parziale, alimentando il fenomeno della sottoccupazione.
Per un’analisi oggettiva della disoccupazione, chi sbandiera il dato Seco non fa un lavoro scientificamente corretto. Quel dato conta solo i disoccupati iscritti agli Uffici regionali di collocamento, un numero in forte decrescita per due motivi che non sono direttamente collegati a una buona salute del mercato del lavoro. Anzitutto, gli iscritti calano perché sono aumentate le restrizioni all’accesso alle indennità di disoccupazione soprattutto per i giovani. Poi ci sono coloro che si disiscrivono, fenomeno molto frequente per i disoccupati di lunga durata che esauriscono il diritto alle indennità. Questo significa che il dato Seco non basta per comprendere l’entità del fenomeno disoccupazionale, né per analizzarne l’evoluzione e neppure la struttura in termini di minore o maggiore incidenza su questo o su quell’altro gruppo sociale o professionale.
La disoccupazione tocca più i giovani – ma quando colpisce le persone mature, per queste diventa molto più difficile ritrovare un impiego – , gli stranieri, le donne, le persone meno qualificate. Infine alcune professioni più vulnerabili, come le impiegate di commercio.
Crescono in Ticino, ma meno che nelle regioni lontane dalla frontiera. Mentre le differenze fra salari più elevati e più bassi – ma anche fra uomini e donne, fra svizzeri e stranieri – restano importanti.
A livello complessivo nazionale, quello sulla libera circolazione è un buon accordo. Però, per realtà esposte alla frontiera il bilancio è più in chiaroscuro: ci sono vincenti e perdenti. La libera circolazione favorisce ad esempio le aziende che cercano nuova forza lavoro – perché si trovano davanti a un bacino di reclutamento più ampio –, e quelle posizioni o professioni complementari alla manodopera frontaliera. Quando residenti e frontalieri ambiscono allo stesso posto di lavoro, invece, le probabilità per i primi di essere assunti si assottigliano. Ciò determina la minor capacità del nostro mercato di lavoro di riassorbire disoccupati.
Non è tanto questione di ‘tolgo uno, metto l’altro’. Piuttosto, come si diceva, in un momento di ripresa economica quando le aziende ricominciano ad assumere, in una zona di frontiera per lo stesso posto si presenta un numero maggiore di pretendenti, residenti e non. In certi casi, un datore di lavoro privilegia ad esempio un frontaliere formato ed esperto disposto a competere per posizioni che da noi, per salario e inquadramento, attraggono solo profili più giovani e quindi inevitabilmente più ‘acerbi’.
I risultati dell’attività della Commissione Tripartita dimostrano in certi casi di sì. Tanto che il Ticino è il cantone che ha dovuto introdurre più contratti normali di lavoro o cercare la via dell’obbligatorietà generale per i contratti collettivi. Quello che alcuni chiamano ‘imbarbarimento del mercato del lavoro’ ticinese si riscontra solo in alcune frange: però in quelle frange – difficili da quantificare – fa male.
No, ma bisogna ritenere invalicabile la linea rossa delle misure di accompagnamento. Ricordiamoci che il nostro cantone non è esposto al Baden-Württemberg, ma alla Lombardia e al Piemonte, regioni altamente dinamiche, ma pure con oltre 400mila disoccupati e con livelli salariali ben al di sotto di quelli ticinesi. Quindi da noi sono fondamentali i controlli sul mercato del lavoro e le attività delle commissioni tripartite (che riuniscono Cantone, sindacati e rappresentanti degli imprenditori, ndr).
Non abbiamo dati quantitativi attendibili. Il tessuto dell’economia ticinese è solido, responsabile e da sempre attento ad agire secondo le regole e il buon senso comune. A livello di certi comparti e frange però questo non accade, come dimostrano i dati sugli abusi. E la mela marcia rischia di rovinare tutto il cesto.
C’è un mercato del lavoro che cresce, ma non migliora in termini di inclusività. A breve termine questo può non essere un grosso problema, ma a lungo termine mette a rischio la sostenibilità dell’intero sistema.
Abbiamo incontrato Christian Vitta mercoledì scorso, prima del bel convegno di Unia dedicato al tema dei frontalieri e a un brillante saggio dello storico bergamasco Paolo Barcella (‘I frontalieri in Europa’, Biblion edizioni). Il direttore del Dipartimento delle finanze e dell’economia non nasconde le difficoltà: «Sicuramente c’è una grande insicurezza. In Ticino si combinano due effetti: quello del frontalierato, che preoccupa anche perché ultimamente si è esteso al settore terziario; e poi i cambiamenti tecnologici, che rivoluzionano globalmente il mercato del lavoro. Il quadro complessivo mostra anche una pressione sui salari, tanto che il Ticino ha introdotto 17 contratti normali di lavoro per arginare il fenomeno».
Che fare? «Possiamo agire con gli strumenti di cui dispone un Cantone. Abbiamo iniziato un progetto di coaching personalizzato per i disoccupati di lunga durata. Abbiamo intensificato i controlli per identificare e sanzionare gli abusi nelle imprese. Con il professor Losa si è poi avviato un gruppo di riflessione per identificare le sfide sul medio termine legate ai cambiamenti in atto. Ma servono anche misure per incentivare di più le aziende ad assumere i disoccupati residenti».
Obiettiamo che una politica di tagli fiscali non porta necessariamente sul territorio imprese responsabili, ma Vitta rovescia la prospettiva: «Con la riforma, l’obiettivo è quello di mantenere la stessa posizione che abbiamo oggi nel confronto intercantonale. Questo vale anche per le aziende che già operano sul territorio, che impiegano residenti e meritano un trattamento equo. Per queste abbiamo anche una serie di aiuti cantonali mirati: presenteremo a breve un messaggio per sostenere le imprese che si distinguono in termini di responsabilità sociale».
Concetto sfuggente, che infatti il Cantone si sta preoccupando di specificare e rendere misurabile: «Ci stiamo lavorando con la Supsi. Fra gli indicatori potranno ad esempio essere considerati la presenza di un codice etico, la tutela dei propri collaboratori, dei consumatori e lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi e sostenibili».
Il tasso di disoccupazione Ilo e quello Seco forniscono risultati molto diversi: a ottobre 2019 quello Seco era del 2,6%, con un calo decennale di 2,5 punti percentuali. Disoccupati dimezzati? No davvero, se si guarda al dato Ilo, che segna un 8.1% e un incremento di 2 punti su base decennale. Chi ha ‘ragione’? La differenza è dovuta alle metodologie di calcolo.
Per farla breve: Seco misura solo gli iscritti agli Uffici regionali di collocamento, senza un impiego e immediatamente collocabili. Si tratta di un dato esatto, ma basato su una definizione molto restrittiva di cos’è un disoccupato: ad esempio, se si è iscritti a un corso qualsiasi organizzato dagli Urc, non si viene conteggiati in quanto non “immediatamente collocabili”. E basta un cambiamento nella legge sulla disoccupazione per influenzare il numero di iscrizioni (vedi intervista).
Il dato Ilo invece ha natura puramente economica: include anche i disoccupati non iscritti agli Urc. È una stima, alla quale va associato un margine di errore e che a volte produce sbalzi strani, come successo negli ultimi due trimestri. Questo però non deve indurre a pensare che il dato sul lungo periodo – medie annue e andamenti decennali – sia inattendibile (un mio precedente articolo sugli ultimi rilevamenti conteneva alcune generalizzazioni e imprecisioni che potevano spingere a questa affrettata conclusione: me ne scuso). Ilo si basa su un’indagine che comprende un ampio sondaggio telefonico – la prima intervista dura circa 45 minuti – volto ad accertare in modo accurato e con metodologia standardizzata a livello internazionale l’effettiva disoccupazione e disponibilità all’impiego dell’intervistato, in un ventaglio anagrafico tra i 15 e i 74 anni.
Si intende disoccupato chi non ha lavorato neppure un’ora nella settimana di riferimento dell’indagine, ha cercato attivamente impiego nelle quattro settimane precedenti (e si accerta come), ed era disponibile a iniziare subito un’attività. In Ticino gli intervistati sono circa 8mila. Appare dunque chiaro quanto il dato Ilo, oltre che attendibile, sia il più vicino al ‘senso comune’ di quello che intendiamo per disoccupati. Ai quali si aggiungono i sottoccupati: 9,6% nel 2018.