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Fin dove vuole arrivare il leader del Cremlino

II neo-zar vuole ‘solo’ il Donbass, cerca di fermare l’espansione Nato o ambisce a rovesciare il governo di Kiev? Molte domande, qualche indizio

Chissà cos’ha in mente
(Keystone)
15 febbraio 2022
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Da settimane, stringendo sempre più “la presa sul collo dell’Ucraina” (denuncia del rieletto presidente tedesco, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier), la domanda è sempre la stessa: fin dove vuole (e può) arrivare Vladimir Putin? È vero che l’autocrate di Mosca dichiarò pubblicamente che “il crollo dell’Unione Sovietica è stato la più grande catastrofe del Ventesimo secolo”, e se ne potrebbe perciò dedurre che egli respinga la realtà geopolitica sancita dalla fine della guerra fredda, fino al punto di voler in qualche modo ristabilire ‘l’ordine antico’. Ma è anche vero che in seguito lo stesso uomo del Cremlino se ne uscì con l’affermazione che “chi volesse restaurare l’Urss è una persona senza cervello”, e a lui di certo la materia grigia non manca. Quindi, di nuovo, dove sta il suo agognato punto d’approdo?

In questo apparente rompicapo si stanno esercitando politici e analisti. Il traguardo minimo del neo-zar è quello, dopo la Crimea, di riprendersi con la forza anche l’altra parte di terra ucraina che corrisponde al Donbass, con popolazione a maggioranza russofona, dove si combatte da anni una ‘guerra a bassa intensità’ che però ha già fatto 14mila morti? Oppure l’ambizione massima è pilotare e provocare a Kiev un cambio di regime favorevole all’ex ‘madre Russia’, che non vuole rinunciare a quella terra che per secoli ha fatto parte dei suoi imperi (zarista prima, sovietico poi)? O ancora, traguardo intermedio, in nome della sicurezza nazionale ‘semplicemente’ evitare che l’Ucraina finisca nella Nato (in questo caso con relative basi missilistiche) come è già avvenuto per gli ex vassalli, dall’Ungheria alla Polonia, dagli Stati baltici alla Cechia. Con un corollario di domande subordinate, ma non di poco conto: dividere gli alleati delle due sponde dell’Atlantico, puntare sulle paure degli europei fortemente tributari dell’indispensabile energia (gas, petrolio) proveniente dalla Russia, dare alla Cina un motivo in più per rafforzare l’asse Mosca-Pechino in funzione anti-Usa.

Tanti interrogativi, che non si eliminano a vicenda; e qualche imprevista risposta. Per esempio quella di Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, uno dei più prestigiosi think tank statunitensi, che afferma: “Dovremmo anche prepararci per un’altra possibilità, una crisi prolungata, in cui un numero significativo di forze russe rimane parcheggiato ai confini ucraini”; dunque il protrarsi di un braccio di ferro militare, diplomatico, da guerra fredda, una sorta di indeterminato conflitto ibrido. Che farebbe più comodo al Cremlino, sia per la sua esibizione muscolare (tenuta comunque sotto controllo) che mette comunque in ansia il fronte nemico, sia per i vantaggi economici che nello status quo favoriscono con certezza più i russi che gli occidentali. L’agenzia Bloomberg ha in effetti calcolato che i prezzi più alti di quest’anno per gas e petrolio garantiranno al Cremlino oltre settanta miliardi di dollari in più. E se la situazione di crisi senza conflitto dovesse protrarsi, le entrate per il Ministero delle finanze a Mosca potrebbero rivelarsi decisamente maggiori. Paradossi che forse più di altri vengono interpretati e rappresentati dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che rimprovera addirittura il suo protettore americano: Kiev è assediata, “ma non è il caso di esagerare con l’allarmismo”. E chissà che il figliol prodigo di Kiev non capisca meglio fin dove voglia arrivare Putin.