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In Kerala, nel Sud dell'India, in una comunità spirituale guidata da Mata Amritanandamayi si portano avanti progetti umanitari anche nei nove campus
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nell’India meridionale, c’è una comunità spirituale il cui fulcro è Amritanandamayi, leader spirituale che da decine di anni, in tutto il mondo, porta i suoi progetti umanitari. Là, oltre all’ashram (dove si preparano 10mila pasti al giorno), trova spazio anche un’università, considerata, fra le private, la migliore del Paese peninsulare. L’ateneo conta nove campus (dai laboratori di robotica alle cattedre di biotecnologia, telemedicina ecc.), in cui si svolgono ricerche che hanno quale obiettivo comune la risoluzione dei problemi delle comunità e il miglioramento della qualità di vita, seguendo un approccio partecipativo.
È ancora buio quando si levano i primi canti devozionali. Un monaco sta preparando il rituale del fuoco, una cerimonia tramandata dagli antichi saggi indiani, eseguita per mantenerci in armonia con le forze del cosmo, aiutandoci a rimuovere gli ostacoli sul cammino. Mezza assonnata, penso che sia un bel modo per iniziare la giornata. Siamo una trentina, ci sono indiani, europei, soprattutto donne. Qualche cane curioso. Tra nuvole di sandalo e collane di fiori, seguiamo come ipnotizzati i gesti del religioso e la danza del fuoco, che sembra quasi prendere forma. Nell’induismo è considerato una divinità. Agni, il fuoco, che collega terra e cielo. Citato negli antichi testi sacri Veda: “Colui che appartiene a tutti gli uomini; con la sua luce dissipa le tenebre”. Vedo arrivare un’anziana, avvolta in un sari bianco, capelli color argento, osservo il suo passo lento. Prima di sedersi, si mette della cenere nel punto tra le sopracciglia. È un gesto simbolico, carico di significato: focalizza l’intenzione sul terzo occhio, quello rivolto verso l’interno, che non viene distratto dal caos del mondo esterno. I primi passi dell’alba sono nel tempio interiore, camminando verso la propria divinità.
© Mata Amritanandamayi
La cerimonia del fuoco
Intanto il buio si fa meno penetrante, stormi di uccelli sembrano cantare al ritmo dei mantra, che sovrastano il crepitio del fuoco. Ciascuno getta nelle fiamme sacre delle offerte: riso, frutta, zucchero… lo fa immaginando i fardelli che vuole ardere e lasciare andare. Un giovane alto e magro dai gesti precisi posa una noce di cocco (scoprirò più tardi che simboleggia l’ego). Inizia così, un giovedì di dicembre all’Ashram Amritapuri che fa capo alla leader spirituale Mata Amritanandamayi, nota come Amma (la madre), riconosciuta in tutto il mondo per i servizi umanitari sostenuti da decenni.
© Mata Amritanandamayi
Mata Amritanandamayi
Siamo in Kerala, a tre ore di auto dalla città coloniale Kochi, in una comunità spirituale, un villaggio vibrante di vita, stretto tra l’Oceano Indiano e un grande fiume. È il cuore del movimento, che conta oltre cinquemila volontari di oltre 40 Paesi al servizio dei poveri. Il fulcro motivante è Amma: una signora indiana settantunenne, la terza di sette figli – cresciuta in una famiglia di poveri pescatori, in un Paese dove le donne contano poco – che negli ultimi 30 anni ha abbracciato oltre 39 milioni di persone in Europa, Asia e America di ogni religione, nazionalità e classe sociale. Lo fa per liberare dall’egoismo, per seminare la compassione e costruire insieme un mondo più equo. C’è chi vede in lei una madre, chi una leader umanitaria, chi la sceglie come proprio guru. Apre le braccia all’altro, allargandosi a tutto il pianeta con le attività che dirige. Una rete globale di progetti umanitari (Embracing the World) – dalla costruzione di case, ospedali, scuole, progetti ambientali – che mostrano quanto l’impossibile sia possibile.
© Mata Amritanandamayi
La facciata del tempio Amritapuri
L’ashram è costruito dove Amma è nata. Un’angusta casetta, dove ogni mattina si svolge il rituale del fuoco. Oggi tutt’attorno c’è un villaggio che ospita tremila praticanti (tra cui 700 stranieri). Maestoso il tempio della dea indù Kali, dove ogni mattina le donne fanno meditazione, mentre gli uomini sono nel padiglione centrale. Qui Amma ogni pomeriggio dà insegnamenti, dirige i canti devozionali e dona abbracci (darshan) fino a notte inoltrata. Tutt’attorno c’è quanto serve a soddisfare il corpo: un negozietto, due caffetterie, distributori di acqua potabile, un ecocentro. Tutto è gestito da volontari che si allenano nel servizio disinteressato (seva). Dedicano tempo ed energie a far funzionare la comunità. Come Sergio di Zurigo, avrà 60 anni, lo incrocio alla caffetteria, è addetto alle colazioni.
Mi spiega dove acquistare una tazza, perché ciascuno ha la sua, poi viene riempita di caffè, tè o altro. Un modo intelligente per ridurre gli scarti. Dice: “Sono le mie vacanze, mi fa bene pensare agli altri”. Mi indica lo yogurt. Sorride vedendo il mio scetticismo: “Fidati, è meglio del Bioflorin”. Assieme al müesli, mi allunga una caramella arancione, c’è scritto Amma. “Sai, porta fortuna!”. La metto in tasca e cerco un posto per sedermi. Intanto, poco più in là, si sta formando un’interminabile coda di persone.
In India non esistono aiuti sociali, chi non lavora muore di fame. “Mattina, pranzo e sera vengono distribuiti pasti gratuiti”. Mi spiega Franziska, anche lei di Zurigo, da anni devota di Amma, ex giornalista in pensione, vive tra India e Svizzera. È il mio angelo custode nell’ashram. Già dalle prime ore del mattino ci sono i turni per tagliare le verdure, preparare il chapati. “Quando fai il seva, non importa se ciò che fai ti piace o no, fai quello che la situazione richiede. Dimentico me stessa per un momento, sono concentrata nell’aiutare chi è nel bisogno”, mi racconta una ragazza francese, mentre taglia i pomodori.
Ogni giorno la cucina dell’ashram prepara diecimila pasti. Per i poveri, per i residenti, per l’ospedale, per l’università che conta trentamila studenti, riconosciuta come la migliore in India tra quelle private.
Un luogo privilegiato per capire la filosofia di Amma. Visitiamo l’università (Amrita University) il giorno seguente, ad aspettarci c’è il coordinatore, si chiama Krishnan Pillai, ci scorta dentro i nove campus, tra laboratori di robotica, nanotecnologia, biotecnologia, telemedicina e tante attività di ricerca che hanno un obiettivo comune: risolvere i problemi della comunità e migliorare la qualità di vita. Lo ripete più volte. “Qui si fa ricerca motivati dalla compassione per avere un impatto sociale”. Sono davvero curiosa. Più dei ‘paper pubblicati’ interessa l’utilità delle invenzioni come la pompa a insulina a basso costo, come tecnologie mobili per la salute nei villaggi. Mi mostrano un robot sorridente, insegna ai bambini dei villaggi come lavarsi correttamente le mani. “Per loro diventa un gioco, lo ascoltano e funziona. Troppi morivano di diarrea”, mi racconta fiero un ricercatore.
© Mata Amritanandamayi
Il robot lava mani
Tanto lavoro ha dato i suoi frutti. “Dopo tanti test andrà in produzione”. Nella sala accanto, si lavora sulla realtà virtuale: mi fanno indossare un casco con un visore che mi proietta in cima a un grattacielo, dove c’è un gattino da salvare. Tutto è così reale. Ho vertigini, la paura mi aggroppa lo stomaco, pur sapendo che è un’illusione. “Serve per allenare chi costruisce nuovi grattacieli. Le città stanno cambiando volto e i lavoratori non sono abituati a stare sui tetti e perdono il posto”.
© Mata Amritanandamayi
Dispositivo per le vertigini
Passiamo dalla robotica alla geologia. In un enorme laboratorio stanno mettendo a punto dei bio-sensori wireless antifrana sviluppati dopo la catastrofe del 2010 in Kerala. I ricercatori mostrano il loro sistema di allerta, ora usato dalle autorità. “Possiamo salvare vite umane”. Ma è nel laboratorio di microbiologia dove studiano un sistema per filtrare l’acqua per 300 villaggi che capisco veramente il fil rouge che unisce tutto.
© Mata Amritanandamayi
Depuratore dell’acqua
Ricercatori e studenti vanno a vivere nei villaggi più remoti per settimane, il tempo per capire le esigenze della comunità. Una volta tornati all’università cercano soluzioni. Come un piccolo depuratore portatile per l’acqua che mostrano con orgoglio. Ha migliorato la vita in molti villaggi. Nulla viene imposto dall’alto. “È un approccio partecipativo, che permette di risolvere i problemi della gente più povera. Così le soluzioni vengono accettate e usate”. È intelligente ed efficace. Infatti il decano della facoltà Life Science del Dipartimento di biotecnologia ha lasciato la sua cattedra negli Usa: “Sono tornato in India per lavorare con Amma. Lei sa puntare la luce sugli altri. Condivido questa filosofia di università moderna sostenuta da valori spirituali e sociali”, commenta il professor Bipin Nair. La compassione di Amma ha cambiato questo accademico e tanti altri.
Spiritualità, tecnologia e scienza in questo Paese camminano insieme. “Ciascuno ha qualcosa di prezioso da offrire alla società. Se tutti facessero un poco di più, il mondo sarebbe un posto migliore”. Le parole di Swami Shubamritananda Puri, uno dei discepoli senior di Amma, mi risuonano in testa. Come la compassione di Amma fluisce in tanti programmi umanitari per mitigare la sofferenza degli ultimi, ciascuno di noi può fare la sua parte.
© Mata Amritanandamayi
Durante un incontro
Amrita University (www.amrita.edu);
Embracing the World (www.embracingtheworld.org)