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La notte dei sorrisi (e delle lacrime) che non scorderemo mai

A Londra, nel torneo da lui stesso ideato, King Roger ha chiuso una carriera irripetibile. Federer nell’Olimpo come Muhammad Ali e Michael Jordan.

Uno scatto che entrerà nella storia
24 settembre 2022
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Londra – Doveva ritirarsi dopo l’incredibile resurrezione agli Australian Open del 2017. Doveva ritirarsi a Wimbledon, nel 2019, battuto da Djokovic in una partita che aveva già vinto. Doveva ritirarsi durante il lockdown, quando il tempo pareva cristallizzato, ma volava. Doveva ritirarsi a Basilea, il torneo di casa. O chissà dove. Ognuno ha la sua idea. Si è ritirato alla Laver Cup, giocando accanto al rivale di sempre, in una coppa ideata anche da lui, un torneo che – soprattutto oggi – sembra sia nato apposta solamente per dirsi un giorno addio.

Federer, ossessionato dal tempo e dalla pianificazione maniacale della sua ultima partita è stato preso in contropiede dalla pandemia, rincorrendo un tennis che era abituato a rincorrerlo mentre lui non sudava neanche.

Eppure ha trovato lo stesso il modo di congedarsi con una serata alla sua altezza. E con la consueta grazia, quella che fece scrivere a Gianni Clerici che Federer era, ed è, anche ora, che non è più – ufficialmente – un tennista, "la reincarnazione dello spirito del gioco".

La giornata, fredda, grigia, londinese come da manuale, era iniziata con Djokovic sul campo pratica fuori dall’O2 Arena, separato dal pubblico da un’enorme vetrata che fa tanto acquario. Guardare, ma non toccare. Lui dentro, come un pesce tropicale, come se appartenesse a un’altra specie. Gli altri fuori a meravigliarsi.

Intanto Federer ha proseguito nella sua cronaca di un addio, mettendo sui social istantanee del dietro le quinte di questa Laver Cup piena di facce sorridenti e piccoli gesti d’intesa, che sembra sempre più una rimpatriata di un gruppo Erasmus, con quell’inglese storpiato e declinato in mille modi, com’è normale che sia tra scozzesi, greci, svizzeri, serbi, italiani e spagnoli.

I primi a essere presentati dallo speaker sono quelli del Team Mondo, nomi non altisonanti che strappano comunque applausi e tuttavia perfetti per creare il climax che si andava cercando, perché la sensazione, dentro il palazzetto, è quella di un crescendo, di una marea che monta. Sarà esattamente così: si parte con i più giovani e meno titolati del Team Europa, con il primo cambio di volume ed entusiasmo dedicato a Murray, scozzese adottato dagli inglesi, che senza di lui starebbero ancora cercando l’ultimo vincitore britannico di Wimbledon in fondo agli annali (Fred Perry, 1936). La marea si alza ancora un po’ per Djokovic, e quando tocca a Nadal sembra non si possa andare oltre. Quando viene annunciato Federer è come se all’improvviso fosse entrato tutto insieme il doppio della gente che c’era solo un secondo prima. Inevitabile sentire tremare la O2 Arena sotto i piedi, inevitabili i brividi: e ancora non ha preso in mano la racchetta.

Pochi secondi dopo, parte dagli altoparlanti il brano "Human", hit del decennio scorso in cui viene ripetuta con insistenza la frase "I am only human, after all" ("Sono solo un uomo, dopotutto"). Composta nel 2016, annus horribilis per Federer - tartassato dagli infortuni e fuori da ogni finale Slam, prima della resurrezione all’Australian Open 2017 - difficilmente sapremo se è stata trasmessa per scelta o per caso, ma pare messa lì a ricordare la natura umana del campione svizzero, e anche la sua - la nostra - inevitabile caducità.

Federer, come tutti i campioni che amiamo e si ritirano in età avanzata, ha il potere impietoso di ricordarci il tempo che passa meglio di un orologio, meglio di un calendario, meglio perfino del nostro stesso specchio, che ci invecchia un giorno alla volta, ingannandoci. Siamo umani anche noi, dopotutto, e vogliamo la nostra dose di sogni, di surrealtà, di ricordi nitidi in cui infilare pezzi di vita vissuta e immaginata con e senza Federer.

La serata che chiude un’intera epoca

La Laver Cup ci permette tutto questo, a partire dai due capitani ormai incanutiti che hanno scandito il tempo di altre generazioni, Bjorn Borg e John McEnroe, che si sorridono e si abbracciano (hanno pure posato per una foto con gli stessi abiti della finale di Wimbledon 1980, l’equivalente tennistico della "Rumble in the Jungle" tra Ali e Frazier): non erano solo rivali, erano la guerra dei mondi.

Nascosto dai giochi di luci durante la presentazione, il campo è il primo dettaglio che balza agli occhi: non verde né rosso né blu, ma nero, un colore che tra le superfici del tennis nemmeno esiste, nero come una lavagna, nero come lo schermo di Pong (il proto-videogioco con le due stanghette che potevi solo spostare su e giù), nero come avrebbero potuto essere quei campi usciti dalla fantasia dei pubblicitari della Nike anni Novanta, quelli che mettevano Roberto Carlos, Henry e Ronaldo a giocare nella pancia di una nave che affonda, o Maldini e Cantona a vedersela contro una squadra di diavoli.

Il primo dell’Europa a scendere sul campo nero, in maglia blu, è Casper Ruud, contro l’americano Jack Sock, in rosso. Che sia un torneo con regole e abitudini tutte sue lo dimostrano i continui "cinque" che i compagni di squadra - seduti su un divanetto semicircolare a ridosso delle panchine con i capitani - danno a chi è in campo alla fine dei game o anche solo di un punto, con l’americano Tiafoe che plana dal divanetto e addirittura travolge per l’entusiasmo il compagno di squadra Sock alla fine di uno scambio particolarmente lungo e spettacolare. Con tutti quei "cinque" dati quasi in modo automatico sembra di essere finiti dentro una partita di pallavolo con le racchette. Intanto Federer prende posizione tra Tsitsipas e Berrettini e - quando l’italiano si alza - inizia a parlare fitto e ridacchiare con Djokovic.

Vince Ruud e vince poi anche Tsitsipas (contro l’argentino Schwartzman), portando l’Europa sul 2-0, ma l’attenzione è tutta rivolta verso il campo pratica, dopo un video in diretta di Federer, sorridente, che annuncia da un’auto - seduto accanto a Nadal - un imminente allenamento con lo spagnolo. La gente dentro e attorno al Millennium Dome si riversa all’unisono tutta dalla stessa parte, come su una nave che incontra un’onda anomala e scaraventa tutti i passeggeri sullo stesso lato. I tifosi fanno la fila per vederli e si fa fatica a contenerli, gli ultimi arrivati non faranno nemmeno in tempo a entrare.

Roger, dentro l’acquario, sfodera un sorriso per pallina, Rafa è invece tutto smorfie e sofferenza anche sul campo d’allenamento. Dopo pochi minuti i due si fermano e a bordo campo compare Anna Wintour, la celebre e temutissima direttrice di Vogue con i suoi occhiali neri d’ordinanza. Bacia entrambi i tennisti e poi si porta via Federer oltre una porta a vetri. Donne e uomini gli urlano ti amo, mentre lo spagnolo continua ad esercitarsi con il vice capitano Thomas Enqvist: a un certo punto Rafa colpisce talmente forte che il suo sparring-partner viene colpito e urla di dolore. Ma si riprende in fretta.

Quando arriva il momento del terzo match - Murray contro l’australiano De Minaur - anche Nadal scompare nella pancia dello stadio. La partita, combattuta e lunghissima, sembra ancor più lunga perché tutti sono impazienti di vedere Rafa e Roger, accolti da un’ovazione quando la regia li scova attorno a un tavolino mentre bevono e aspettano il loro turno: i due, quando si accorgono di essere inquadrati si battono il pugno. Ma Murray e De Minaur sembrano non voler finire mai, con un paio di game estenuanti quasi come interi set, a tal punto che Roger e Rafa tornano a sedersi sul divanetto a bordo campo infischiandosene dell’entrata scenica che tutti aspettavano. Vincerà l’australiano al super tie-break, portando la gara sul 2-1, per quel che conta, adesso.

Un’arena imppazzita come ai tempi dei Beatles

Il momento di Federer scatta così un’ora più tardi del previsto, quando entra in campo accanto al nemico-amico di una vita (il loro primo "Fedal", che ancora non si chiamava così, è datato 2004, a Miami, e vinse Nadal) in un’arena che sembra impazzita come s’impazziva un tempo per i Beatles e che si alza tutta in piedi come se dovesse suonare da un momento all’altro un qualche inno nazionale.

Roger e Rafa indossano entrambi la bandana d’ordinanza, bianca. Dall’altra parte ci sono Jack Sock e Frances Tiafoe. E anche se il campo illumina entrambi i lati, sembra di vederne solo uno.

Il primo alla battuta è Nadal, che con la prima di servizio quasi colpisce Federer, con la seconda fa ace. Il secondo punto lo costruiscono assieme, il terzo sembra una magia, con entrambi sottorete a respingere tutto. Chiudono il primo game lasciando gli avversari a zero e il pubblico a gongolare. Va avanti così, con applausi a scena aperta anche davanti a un dritto fuori controllo di Roger e a una volée di Rafa oltre la riga. Quando lo speaker annuncia "Serve Federer" il pubblico reagisce come se fosse stato invitato a spaccarsi le mani.

Tra un punto e l’altro i due confabulano da attori consumati, strappando risate, ricordi. Nelle pause, gli altri del Team Europa - Djokovic in testa - si mettono in piedi, rimanendo in penombra dietro a Roger e Rafa, seduti sulla panchina e illuminati dal riflettore: non fosse per quelle tute blu elettrico sembrerebbe un quadro rinascimentale, soprattutto grazie ai capelli botticelliani di Tsitsipas.

Durante i break appaiono sullo schermo spezzoni della carriera e della vita di Federer: trionfatore agli Us Open, in Sudafrica con i bambini della sua fondazione, tra le alpi svizzere, di nuovo in campo, più giovane di almeno dieci anni, a mandare un bacio alla telecamera. Lui alza lo sguardo, sorride. E ti chiedi se anche Roger, come noi, vorrebbe che questa serata non finisse mai.

Sock e Tiafoe sono dello stesso avviso, e dopo aver perso il primo set si portano avanti, prolungando l’incontro, mentre Nadal e Federer, dalla mobilità ridotta, rispondono con un tennis minimalista. Quando Roger trova lo smash, potente e centrale, che rimette in piedi un game partito con un handicap di tre punti, sembra possa iniziare la festa, anche perché Tiafoe scambia per un attimo il tennis col baseball e se ne esce con una specie di fuoricampo. Ride perfino lui.

Arrivati al tie-break, Sock riesce a portare a casa un punto perso almeno tre volte e - elettrizzato dall’adrenalina - si mette a esultare in modo sguaiato, rabbioso, viene da dire da calciatore: corsa verso la tribuna, salta e urla stringendo il pugno in alto, il tutto in un silenzio irreale, perché il pubblico ha trattenuto un’esultanza per Roger che alla fine gli è andata di traverso.

Il secondo set lo vincono gli americani e al decisivo super tie-break sembra tutto apparecchiato per Roger e Rafa, che partono bene, si sciolgono e infine si riprendono. Sembra una sceneggiatura ben calibrata: la partita che inizia tardi, che si allunga fin dove può e poi mette Federer nelle condizioni di servire per il match sul 9-8.

Ma i punti pesanti, quelli che chiudono le partite, sono sempre stati il suo cruccio. Gli hanno rimproverato negli anni di non essere abbastanza cattivo, abbastanza freddo. Di averci rimesso almeno un paio di Slam, sufficienti per guardare ancora tutti dall’alto. Le statistiche, a loro modo, danno ragione a chi lo ha bacchettato. E anche l’ultimo servizio della sua vita, che lo tradisce rimettendo il match nelle mani degli avversari. Alla fine gli americani la chiudono tra gli sguardi impietriti di chi si era convinto del lieto fine, per quanto possa contare, una vittoria, ora.

Il lieto fine arriverà comunque qualche minuto più tardi quando Federer, intervistato da Jim Courier al centro del campo, parla di quanto sia felice di quest’ultimo giro di giostra e tutto a un tratto scoppia in lacrime. È il semaforo verde, lo sparo dello starter, la piena che rompe gli argini: fino a quel momento si erano trattenuti tutti o quasi, poi all’improvviso ti giri e vedi piangere la moglie Mirka, mamma Lynette, Nadal - che sembra il più disperato - e più o meno tutti quelli a cui puoi scrutare gli occhi nella penombra della O2 Arena. Una festa perfettamente riuscita, in cui tutti piangono. Solo Federer poteva riuscirci.