Agli Us Open il serbo punta al ‘major’ da record e da leggenda. Tra i big, in grande spolvero c'è solo Alexander Zverev, oro a Tokyo e vincitore a Cincinnati
C’è una verità che non può essere confutata, circa gli Us Open edizione 2021: per quanto non esaltante, alla luce di qualche defezione illustre, non è un torneo banale. Ci sono infatti tutti gli ingredienti per fare del quarto “major” stagionale l’appuntamento che potrebbe segnare una svolta nella storia del tennis, nonché sancire l’incoronazione di Novak Djokovic a tennista più titolato di sempre. Per il concetto di “più forte” (o “più grande) di sempre” - Roger Federer, a scanso di equivoci - già ci siamo espressi. Del resto, l’assegnazione l’hanno fatta tempo fa le divinità del tennis, non i cronisti, deliberando a prescindere dal numero di titoli consegnati agli archivi e alla storia della disciplina. Fine del doveroso inciso.
Per quanto un po’ meno prestigioso, diventare il “più titolato” è comunque uno splendido - nonché più concreto - riconoscimento, al quale il serbo numero uno al mondo ambisce con una bramosia che gli è pure costata qualche brutto scherzetto lungo il suo percorso straordinario. Si pensi in primis alle Olimpiadi, dalle quali è stato eliminato manualmente, anche in virtù del carico di pressione e della stanchezza accumulati nella logorante rincorsa al torneo in più, all’ennesima vittoria, alla tacca in più sul muro della gloria. Allo Slam in più che fa la differenza tra lui e la compagnia bella, intesa come Rafa Nadal e il citato Roger, entrambi assenti a New York in quanto acciaccati.
Lo Slam in più al quale Djokovic punta con convinzione, ritemprato nel fisico e rilanciato nelle ambizioni, è il 21esimo, quello con il quale salirebbe al primo in posto in solitaria nell’albo dei record, abbandonando la compagnia bella di cui sopra. Elevandosi così un gradino sopra, operazione che al suo orgoglio di agonista che misura e conta ogni singola vittoria gioverebbe non poco.
Ma non è tutto. La conquista dello Slam numero 21, già di per sé storica, osiamo dire epica, spalancherebbe a Nole i battenti della leggenda e dell'eternità sportiva, in veste di vincitore del Grande Slam, perdippiù nell’era moderna che rende tutto più complicato. Lo celebreremmo come il conquistatore di, in ordine di apparizione nel calendario, Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e, appunto, Us Open. E tanti saluti a chi ci ha provato finora, invano. Leggasi Nadal, che ha in Wimbledon (peraltro vinto nel 2008 e 2010) il tallone d’Achille, e Roger Federer, il quale sul “rosso” ha storicamente fatto fatica, salvo imporsi a Parigi nel 2009 togliendosi così lo sfizio - al pari di Rafa - di almeno un successo “major” su tutte le superfici. Apporre la propria firma su tutti gli Slam è già di per sé un risultato straordinario, riservato a pochi eletti. Tuttavia il Grande Slam è qualcosa di decisamente più grande: uno dopo l’altro, in fila, nella medesima stagione. Basta così? Non dovesse bastare, per capirne meglio la portata si ricordi allora a quanti l’operazione è riuscita, in passato: a un certo Donald Budge nel 1938, poi a Rod Laver a due riprese (1962 e 1969). Due! Ce l’hanno fatta solo in due. Djokovic ambisce a diventare il terzo. Può accadere, eccome. Ecco perché per il serbo questo è il torneo del secolo, o il torneo della vita. Di un’importanza che non gli si può certo contestare.
Peccato che dal punto di vista della qualità in senso stretto, dello spettacolo e della partecipazione, lo Slam statunitense non possa passare alla storia come memorabile. E come potrebbe, senza Federer e Nadal a rendere la pariglia a Djokovic, con due soli altri soli vincitori di un torneo dello Slam in tabellone, Marin Cilic e Andy Murray?
In gioco, però, c’è una possibile incoronazione, uno scenario che rende speciale un evento che altrimenti potremmo anche definire un po’ avaro di contenuti. Questa “povertà”, naturalmente, potrebbe fare il gioco di Djokovic, opposto a una concorrenza non esattamente al meglio del suo potenziale. Il rovescio della medaglia è però l’enorme pressione che grava sulle spalle di colui che a New York ha tutto da perdere. Ha da perdere forse un’occasione irripetibile, di quelle che la carriera ti presenta una sola volta.
O questa o mai più, quindi? Non è detto. Nole è talmente forte che l'assalto al Grande Slam lo può tentare anche l’anno prossimo. Tuttavia, ha ormai 34 anni e una cartella clinica che qualche voce al capitolo “infortuni” la prevede. Quest'anno non deve fare i conti con i rivali di sempre. Né dietro - Zverev a parte - si profila qualcuno di veramente temibile, in ottica successo finale. Sembra essere proprio questa l’opportunità da cogliere, pur con tutto il fardello di pressione che si porta appresso. Con il ricordo, oltretutto, della squalifica dello scorso anno rimediata contro Pablo Carreno-Busta, per aver colpito involontariamente una giudice di linea con una pallina colpita con rabbia e senza controllo. Con quello ancora più fresco della sconfitta contro Zverev nella semifinale olimpica (e relativa battuta d’arresto nel match di consolazione per il bronzo, contro l'appena citato spagnolo) che gli è costato l’incredibile - e possibile - Golden Slam. Impresa riuscita, tanto per restare in tema di leggende, a Steffi Graf nel 1988.
Come a Wimbledon, Novak Djokovic affronterà gli Us Open senza aver disputato alcun torneo di preparazione. A New York è però arrivato presto, per assorbire al meglio il fuso orario. Il tabellone non lo ha favorito, visto che la sua metà di tabellone è presidiata da avversari temibili quali Matteo Berrettini e il citato Zverev. Nell’altra porzione, si annuncia un duello in semifinale tra il finalista del Roland Garros Stefanos Tsitsipas e quello di Melbourne Daniil Medvedev. Opposto a Djokovic nei quarti di Parigi e in semifinale a Londra, Berrettini ha dimostrato di non essere ancora al livello del serbo, ma nemmeno di essere poi così lontano da un successo prestigioso. Quanto al tedesco, il titolo olimpico gli ha tolto pressione, iniettandogli tanta di quella autostima da farne anche il degno vincitore di Cincinnati. È lui il più accreditato antagonista di Djokovic, non fosse che per la splendida condizione che sembra accompagnarlo dalla fine di luglio.
Con Roger Federer e Stan Wawrinka in infermeria, le speranze elvetiche di ben figurare oltre oceano sono affidate alle tenniste, al terzetto formato da Belinda Bencic (Wta 12), Jil Teichmann (44) e Viktorija Golubic (45). Dopo la medaglia d’oro di Tokyo, la sangallese deve convincersi di essere in grado di conquistare anche uno Slam, anche se la numero uno al mondo Ashleigh Barty sembra aver assunto il controllo delle operazioni con una certa decisione. Semifinalista due anni fa dopo aver estromesso la campionessa in carica Naomi Osaka, Belinda nei quarti potrebbe proprio trovare l’australiana, annunciata in grande forma.
Piazzata anche lei nel primo quarto del tabellone, Jil Teichmann è una mina vagante di cui diffidare. Lo ha ribadito anche a Cincinnati, dove è stata sconfitta nei quarti dalla citata Ashleigh Barty. Finalmente risparmiata dagli acciacchi che ne hanno condizionato un po’ il percorso, la 24enne sfoggia un tennis offensivo in grado di dare fastidio anche alle giocatrici più forti del circuito.
Nei quarti di finale a Wimbledon, Viktorija Golubic è a rischio prematura eliminazione, in quanto opposta alla canadese Bianca Andreescu (Wta 7), vincitrice dell'edizione 2019, la quale però rappresenta un'incognita, in quanto negli ultimi mesi ha lotta più con gli infortuni che contro le avversarie.