Dopo un incoraggiante Europeo, la Nazionale è ripiombata nei soliti vecchi vizi, che le hanno sempre impedito di operare il definitivo salto di qualità
Dopo le prime tre partite di Nations League e nell’immediata vigilia del quarto impegno in agenda stasera a San Gallo contro la Danimarca, sono cifre impietose quelle che illustrano la disperata situazione in cui si ritrova la Nazionale svizzera di calcio. Il ruolino di marcia racconta infatti fin qui di tre sconfitte, due soli gol fatti e ben otto al passivo, per una classifica ovviamente deficitaria. Tanto che la retrocessione nella serie B del football continentale pare ormai ben più di un’eventualità.
La buona impressione suscitata dalla squadra diretta da Murat Yakin agli Europei di quattro mesi fa è oggi soltanto un lontano ricordo: pessimo l’attacco, inefficace il centrocampo e fallimentare la difesa. A deludere, in queste ultime uscite, sono stati tutti, senza alcuna eccezione, giocatori e selezionatore. E non soltanto sul campo: imbarazzanti sono state infatti anche molte delle dichiarazioni rilasciate dai protagonisti al termine dei vergognosi incontri disputati, volte per lo più all’autoassoluzione e alla ricerca di alibi, tutti peraltro fragilissimi.
Rimasto orfano dei veterani Sommer, Shaqiri e Schär, al gruppo è mancato proprio l’apporto dei superstiti fra i giocatori più esperti, quelli cioè che avrebbero dovuto rendere meno traumatica la transizione fra il vecchio e il nuovo corso. Ma poco utili sono state anche le dichiarazioni del Ct secondo cui la sua squadra oggi fatica a vincere perché ormai gli avversari la conoscono bene. Cosa aspetta dunque a cambiare qualcosa? A mutare in men che non si dica riescono perfino i virus, com’è possibile che ai sapiens sapiens occorrano tempi biblici?
Appassionati e critici, nei due giorni seguiti alla sconfitta patita in Serbia, si sono scatenati nel tentativo di fornire le plausibili cause che hanno determinato la preoccupante involuzione dei rossocrociati. Fra le varie ipotesi avanzate, ce n’è una – assai indulgente nei confronti di squadra e tecnico – che ha raccolto un gran numero di consensi, ma che a me pare sinceramente semplicistica, per non dire ingenua. Si tratta della teoria secondo cui la Nations League – che nel calendario ha preso in pratica il posto delle amichevoli – viene affrontata come se si trattasse, appunto, di una serie di gare di allenamento, e che dunque risulta del tutto normale che l’impegno profuso sia pari a zero.
Se così fosse, però, a prendere sotto gamba i 90 minuti e a rifiutarsi di correre, difendere e segnare dovrebbero essere tutte le squadre – e non soltanto la Svizzera – e ogni partita dovrebbe terminare 0-0. Invece, ed è più che palese, fin qui di risultati a occhiali non se ne sono proprio visti: anzi, sul groppone degli elvetici sono piovute sonore mazzate.
Fra l’altro, non si capisce perché i giocatori – e le federazioni – debbano considerare alla stregua di amichevoli incontri che in realtà un’importanza ce l’hanno, eccome. Terminare la Nations nelle migliori posizioni, infatti, non solo avrebbe consentito a Xhaka e soci di mantenere il proprio posto nell’élite del calcio, ma ci avrebbe altresì permesso di presentarci al sorteggio per i prossimi Mondiali con le mostrine della testa di serie. E tutti sappiamo quanto ciò sia importante: non a caso, nel recente passato, la Nati ha staccato il biglietto per alcune fasi finali proprio grazie al fatto che – essendo testa di serie – ha potuto evitare avversari ostici e se n’è vista per contro assegnare di assai abbordabili.
Resta il fatto che, pochi mesi fa in Germania, inebriati da un paio di risultati esaltanti, avevamo tutti riconosciuto ai rossocrociati la definitiva conquista della consapevolezza della propria forza. I giocatori presto inevitabilmente muteranno – avevamo scritto – e ci saranno momenti difficili perché, essendo un piccolo Paese, il ricambio generazionale non può essere garantito come fossimo la Francia o la Spagna. Però – eravamo pronti a scommettere – metteremo sempre in campo la garra e la mentalità da grande squadra che finalmente abbiamo acquisito e che, ormai, non potremo più smarrire. Così credevamo, e invece siamo presto ripiombati nella dimensione che, probabilmente, più si addice al nostro calcio, cioè quella della mediocrità.