La paura di offendere qualcuno induce ormai praticamente tutti a censurarsi, perfino quando si tratta di abitudini tutto sommato innocenti
Esattamente 45 anni fa, il 24 settembre 1979, a Sermide, nel Mantovano, si spegneva Vasco Bergamaschi. E chi sarebbe, dirà la maggioranza dei lettori. In effetti, non sto certo parlando di una celebrità, benché la buonanima qualche sprazzo di notorietà l’abbia comunque avuto. Trattasi infatti di un ciclista – classe di ferro 1909 – capace alla metà degli anni Trenta di vincere nientemeno che il Giro d’Italia, nel breve periodo intercorso fra il tramonto dell’epopea di miti come Learco Guerra o Alfredo Binda e l’alba della leggenda di Gino Bartali.
Nella stessa stagione, era il 1935, mise nel carniere anche una tappa al Tour de France e la classifica generale del Giro del Veneto. Prima e dopo di quell’anno per lui di grazia, invece, solo una manciata di successi men che trascurabili. Ma allora – starete giustamente tornando a chiedervi – perché mai dedicare una Sportellata a un corridore dal palmarès così striminzito? Per il soprannome che portava, ecco perché.
Vasco Bergamaschi era infatti detto Singapore, appellativo esotico, poetico e avventuroso al contempo, di un modello che oggi, purtroppo, non se ne trova più. Doveva il nickname, appioppatogli da fratelli e compagni di scuola, agli zigomi pronunciati, al viso glabro e al taglio degli occhi, che lo rendevano un orientale fatto e finito. Da quell’epiteto non si sentì mai offeso, e anzi gli capitava perfino di firmare cartoline o autografi col nome che la tribù aveva scelto per lui, come usava in quei tempi lontani, in base a un tratto distintivo fisico o a un particolare risvolto del carattere, oppure ancora a un determinato episodio occorsogli. Oltre al nome di battesimo, insomma, quasi tutti – fra i pellerossa come alle nostre latitudini – ricevevano un epiteto che spesso diventava addirittura più importante di quello avuto alla nascita.
Ai giorni nostri, però, questa abitudine sta ormai scomparendo. E il motivo è molto semplice: nella maggior parte dei casi il soprannome ricalcava un dettaglio somatico, e oggi rivolgersi a qualcuno riferendosi a stazza, portamento, disegno degli occhi, colore della pelle, eccetera è divenuto tabù, come se i tratti distintivi possedessero qualcosa di intrinsecamente sbagliato o maligno.
La paura che tutti ormai hanno, a furia di veder censurato e fustigato ogni accenno alle caratteristiche fisiche o etniche, è di finire alla gogna per l’eventualità che qualcuno si offenda. E spesso a risentirsi nemmeno sono i destinatari di questi apprezzamenti, ma qualcuno che si è autonominato paladino dei presunti discriminati. Tutto, insomma, è diventato razzismo o body shaming. Del resto, la nostra epoca ben strana è quella in cui la gente arriva al punto di scegliersi da sola il proprio soprannome – che è una contraddizione in termini – e pretende di essere chiamata così. Di questo passo, dei simpatici soprannomi di un tempo resterà soltanto il ricordo, e poi probabilmente scomparirà anche quello.
Per restare nei confini dello sport, andrà a finire che non ci sarà mai più alcun Chino Recoba, perché fa riferimento agli occhi mandorla. Bandito sarà pure el Conejo Saviola, per via degli incisivi da roditore. Stessa sorte per lo Squalo Joe Jordan, così chiamato perché in campo aveva perso tutti i denti davanti. E impossibile sarà pure usare Penna bianca per quei giovanotti precocemente incanutiti come Bettega o Ravanelli. Idem per el Cholo Simeone – e di rimando suo figlio Cholito – perché il termine fa riferimento a un miscuglio di razze. Nel basket, nessuno potrà mai più essere chiamato Chocolate Thunder come Darryl Dawkins, e non si avrà più un altro White Chocolate (Jason Williams). A patire più tutti di questa situazione saranno certo gli argentini, che usano in pratica soltanto i soprannomi: e il 99% dei loro apodos è body shaming o fa riferimento alle origini etniche: Flaco, Gordo, Negro, Turco, Tano, Indio…
Ora che ci penso, il povero Vasco Bergamaschi – vivesse oggi – oltre che del soprannome si vedrebbe privato anche del cognome, perché, a ben guardare, fa riferimento a un’appartenenza geografica.