Nell'anniversario di un record stabilito dal campione del baseball, una riflessione sul male che lo uccise e che ancora oggi miete vittime
Il 2 maggio del 1939, cioè proprio 85 anni fa, Lou Gehrig giocava la sua 2’130a partita consecutiva, un record che sarebbe stato battuto soltanto 56 anni più tardi. L’atleta dei New York Yankees fu uno dei migliori giocatori di baseball in assoluto, fra i più amati e ammirati in un Paese dove quel gioco è considerato sacro, e certamente fra i più rimpianti vista la sua prematura dipartita. Gehrig, infatti, morì nemmeno 38enne, due anni dopo il suo ritiro dall’agonismo, ucciso da un terribile morbo che addirittura prese il suo nome.
Scientificamente si chiama invece Sla, acronimo di Sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa progressiva, gravemente invalidante e mortale, che colpisce prevalentemente il primo e il secondo neurone di moto, cioè i neuroni che ci permettono di muoverci, regolando l’attività di contrazione volontaria dei muscoli. Si sa che colpisce da una a tre persone ogni 100’000 abitanti, ma benché venga studiata da un secolo e mezzo ancora non se ne conoscono la cause.
Ciò che invece si sa è che questa malattia colpisce con maggiore frequenza – addirittura doppia rispetto alla media generale – e in età molto più precoce (intorno ai 40 anni invece che a 60) chi pratica sport a livello professionistico. E inoltre si è certi che, fra gli atleti, le vittime più numerose sono rappresentate da calciatori, rugbisti e giocatori di baseball e football americano.
Dati ed evidenze che hanno naturalmente spinto scienziati e opinione pubblica a formulare ipotesi sul perché a risultare più vulnerabile sia proprio chi pratica queste discipline, e naturalmente tutti hanno subito pensato a un legame con gli eventi traumatici: si tratta infatti, in tutti i casi, di sport in cui i contatti sono violenti e frequenti. Si è molto indagato, e tuttora lo si fa, su quest’idea, ma i risultati non hanno evidenziato alcuna relazione di causa ed effetto.
Un’altra pista battuta è quella che mette sul banco degli imputati il massiccio uso di pesticidi ed erbicidi con cui, nei decenni, sono stati trattati i campi da gioco: le discipline in cui si registrano i più frequenti casi di malattia – e di conseguente morte dei pazienti – si praticano infatti sui prati, e non si esclude che il contatto ravvicinato e ripetuto con l’erba in quel modo curata possa avere delle gravi ripercussioni sugli atleti.
E curioso è pure il fatto che, fra la popolazione ‘normale’, la categoria più colpita dal morbo di Lou Gehrig sia proprio quella degli agricoltori, pure loro costretti a passare moltissimo tempo vicino a sostanze potenzialmente pericolose. Anche in questo caso, però, mancano le prove.
I sospetti maggiori, ad ogni modo, cadono sul frequente uso di rimedi a cui certi sportivi d’élite vengono sottoposti nel corso della loro intera carriera: gli infortuni sono all’ordine del giorno, e per curarli più velocemente possibile si ricorre a un uso massiccio della chimica. Senza considerare, ovviamente, le pratiche di doping, che prevedono la sistematica somministrazione di medicinali del tutto a sproposito.
La tesi potrebbe non essere del tutto campata in aria, anche perché nell’ambiente c’è molta reticenza a parlare della cosa, specie fra i dirigenti e i medici delle squadre, che pare reagiscano fin troppo piccati e infastiditi quando gli si chiedono pareri o delucidazioni sull’argomento.
Più coraggio, almeno in apparenza, si riscontra invece fra gli atleti, specie se hanno già smesso di giocare, dato che da pensionati hanno meno remore e corrono meno rischi a puntare il dito contro il sistema: vedendo ammalarsi e morire gli ex compagni di squadra e temendo per la propria salute, qualcuno ha infatti provato a denunciare certe pratiche. Tutti quanti, però, dopo alcune clamorose dichiarazioni, hanno voluto o dovuto correggere immediatamente il tiro, finendo per minimizzare o spiegando che le loro parole sono state male interpretate.
Com’è doveroso sempre specificare, a pensar male si fa peccato, ma – come diceva il ‘Divo’ Andreotti – quasi sempre ci si azzecca.