Storia di Marco Müller, che lasciò il calcio professionistico per diventare un beffardo rapinatore di banca simpatico alla gente
Quella giunta pochi giorni fa da Bassecourt è una di quelle notizie che fanno la gioia non solo dei cronisti, ma pure degli sceneggiatori delle serie televisive, che con ogni probabilità nei prossimi anni vi si chineranno per trarne materiale di sicuro successo. Del resto, per portarla sugli schermi, non ci sarà nemmeno bisogno di romanzarla troppo.
Il cadavere ritrovato sulla linea ferroviaria il 26 febbraio scorso nei pressi della cittadina giurassiana, infatti, è stato infine identificato: appartiene a Marco Müller, 71enne ex calciatore di Delémont e Young Boys che, evidentemente insoddisfatto degli ingaggi del calcio svizzero – cinquant’anni fa ancor più esigui di quelli odierni – quando era appena ventenne aveva deciso di appendere al chiodo le scarpe bullonate per darsi all’assai più lucrosa attività di rapinatore di banche e furgoni portavalori.
Una storia, quella dell’ex centrocampista con diverse presenze nelle nazionali giovanili e nella prima squadra giallonera, che ai tempi aveva ovviamente fatto scalpore, ma che poi – col passare dei decenni – quasi tutti avevano finito per dimenticare. Eppure, come detto, la vicenda è davvero ricca di particolari gustosi, e merita dunque di essere raccontata.
Dopo aver stupito tutti abbandonando sul nascere una promettentissima carriera nel mondo del pallone, Müller – che era nato proprio a Bassecourt, dove ha infine deciso di togliersi la vita – era presto assurto agli onori delle cronache in qualità di bandito gentiluomo. Le sue rapine spettacolari – molto redditizie, ma del tutto prive di violenza – unite a fughe rocambolesche condite spesso dagli sberleffi che riservava alle forze dell’ordine incapaci di catturarlo, negli anni Settanta gli avevano infatti fruttato una certa simpatia in seno all’opinione pubblica e l’inevitabile soprannome di Robin Hood svizzero.
Colpi d’arma da fuoco, come detto, Marco non ne esplose mai nemmeno uno, ma – per sicurezza – durante le sue prodezze criminali qualche gingillo comunque se lo portava dietro, giusto per essere più convincente quando intimava ai cassieri di consegnargli la grana. Una volta ad esempio, nel 1979, proprio a Bassecourt entrò in banca con una parrucca rossa e un cappottone lungo fino ai piedi. «Pareva il personaggio di un western di Sergio Leone», ricorda l’impiegato a cui toccò riempirgli di mazzette il borsone che gli aveva gettato sul banco. «Tolse di tasca un paio di candelotti di dinamite», aggiunge il malcapitato, oggi pensionato, «e minacciò di farmi saltare in aria se mi fossi rifiutato di obbedire ai suoi ordini».
Catturato e incarcerato una prima volta dopo una serie infinita di rapine, riuscì a evadere dal penitenziario e, una volta al sicuro, spedì ai secondini una cassa di prezioso cognac, giusto per prendere per i fondelli chi non aveva saputo far buona guardia. Di nuovo rinchiuso dopo qualche anno in seguito ad altri colpi spettacolari, nel 1988 seppe fuggire dalla galera una seconda volta, e da quel momento di lui non si seppe più nulla per la bellezza di 36 anni, appunto fino al riconoscimento del cadavere ritrovato sui binari, reso possibile dal confronto col Dna di un suo parente.
Gli inquirenti, per tutto questo tempo, hanno ritenuto che si nascondesse in Francia, dove la polizia non ha mai smesso di cercarlo. Mai nulla si seppe nemmeno della refurtiva accumulata nel corso dei suoi exploit, il cui valore viene stimato in circa tre milioni di franchi, non proprio noccioline. «Dopo le rapine», racconta il suo ex complice André Jaeggi, «Marco teneva sempre per sé gran parte del maltolto. Era furbo, a noi lasciava ben poco. Comunque, non credo che durante la latitanza sia mai tornato a Bassecourt: aveva una camminata tutta sua, e di certo la gente l’avrebbe subito riconosciuto». Comunque sia andata, alla fine Müller a casa ha voluto tornarci lo stesso, per porre fine alla sua avventurosa vita sotto le ruote di un treno e, chissà, magari per recapitare un’ultima beffa a chi tentò a lungo, e invano, di catturarlo una terza volta.