Attorno ai campi sportivi, purtroppo, continuano a verificarsi vergognosi episodi di razzismo
Le notizie relative a quella parte subumana di tifosi della Lazio che a Monaco di Baviera si è fatta notare, un paio di giorni fa, per tutta una serie di comportamenti nazisti sono giunte proprio mentre stavo leggendo ‘A futura memoria’, ottimo libro scritto da Massimiliano Castellani e Adam Smulevich ed edito da Minerva.
Si tratta di un’interessante carrellata di storie di atleti che, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, sono stati vittime di leggi e regimi – di destra o di sinistra – che li hanno perseguitati e vessati a causa della loro razza, del loro credo o delle loro idee. Nelle 152 pagine del volume (fra l’altro pure ottimamente illustrato) trovano spazio uomini e donne che, grazie allo sport, hanno saputo cercare – e in qualche caso trovare – un riscatto dopo aver subito le peggiori discriminazioni immaginabili.
Ad esempio pugili o ciclisti neri, ebrei o zingari che, a Roma come in Germania o negli States, combattono sul ring non soltanto per sé stessi, ma per la loro famiglia o addirittura per l’intera loro razza, la loro civiltà, la loro religione. Oppure veniamo a conoscere storie di campioni che riescono a emergere e ad affermarsi malgrado un passato da profughi, o ancora di uomini e donne che – sopravvissuti a lager di ogni tipo – rinascono e tornano (o diventano) fuoriclasse assoluti.
Le venti storie raccontate – che ne abbiate già sentito parlare o che vi siano del tutto sconosciute – sapranno aprirvi gli occhi e rendervi ancora più attenti rispetto a tendenze che non solo ancora non sono scomparse, ma che purtroppo, in certi casi, paiono oggi ancor più diffuse che in passato.
A indurmi al parallelismo fra le vicende narrate nel libro e la vergognosa condotta della frangia laziale di cui parlavo in apertura di colonna è stato il capitolo dedicato a Charlie Yelverton, prodigioso cestista statunitense che fra gli anni Settanta e Ottanta ha deliziato con le sue giocate spettacolari gli appassionati della palla a spicchi sia in Italia sia nel Canton Ticino, dove vestì la maglia del Viganello dei tempi d’oro.
Il buon Charlie è uno che di discriminazioni purtroppo se ne intende: dapprima certamente non favorito (come tutti gli afroamericani) nel proprio percorso scolastico – che seppe comunque portare a termine fino ai livelli più alti e non solo per meriti sportivi, come troppo spesso accade – conobbe in seguito l’ostracismo della Nba quando una sera del 1972, prima di una partita, rifiutò di alzarsi in piedi sulle note dell’inno nazionale.
Lo fece per manifestare il proprio dissenso verso la Guerra del Vietnam, e l’establishment non lo perdonò: non è che venne dichiaratamente espulso dalla Lega – non c’erano formalmente leggi che l’avrebbero consentito – ma i Portland Trail Blazers lo tagliarono e nessun’altra franchigia volle correre il rischio di ingaggiarlo e gli amici, compreso Kareem Abdul-Jabbar, che conosceva da quand’erano ragazzini, gli voltarono le spalle.
E così gli toccò mettersi a fare il tassista a New York, la sua città, con turni di 12 ore, pochi soldi in tasca alla fine del mese e il suo amato sassofono come unica consolazione. Fu salvato dal basket europeo, che dopo oltre un anno lo ripescò e gli dette l’opportunità di ricominciare a mostrare la sua bravura e di guadagnare meglio.
Gloria e trionfi conobbe in quel di Varese, dove all’epoca c’era la squadra più forte del continente, ma purtroppo dovette fare i conti pure col razzismo imperante in gran parte dei palazzetti del Belpaese. Perfino in quello dove giocava lui stesso: nel 78-79 a Masnago, 10 minuti da Stabio, i varesini ospitavano il Maccabi Tel Aviv, e la parte fascista dei tifosi lombardi riservò agli israeliani un trattamento abominevole, inneggiando fra l’altro ai forni di Auschwitz e Dachau.
A fine gara Aldo Giordani, mitico giornalista baskettaro della Rai (di cui ricorreva fra l’altro pochi giorni fa il centenario dalla nascita) chiese a Yelverton se volesse commentare la cosa, ma Charlie, terrorizzato come mai era stato in vita sua, declinò. ‘Se trattano così gli ebrei – si giustificò col cronista – figuriamoci cosa potrebbero fare a un nero come me’.