Malgrado le smentite, pare sempre più evidente che la relazione fra il selezionatore e il capitano sia conflittuale
La diatriba fra Granit Xhaka e Murat Yakin fa pensare a un combattimento di galli, con l’unica differenza che, almeno finora, i contendenti stanno lottando senza le affilatissime lame che gli allevatori applicano alle zampe degli uccelli per rendere più rapidi e letali i duelli. Le stoccate scambiate fra capitano e allenatore della nazionale svizzera di calcio, insomma, non si sono ancora rivelate fatali: nessuno è stato costretto a soccombere e ognuno rimane al proprio posto.
Ciò che però pare chiaro a tutti è che uno dei due stia prevalendo sull’altro, che dunque si mostra più remissivo. E non ci vuole molto a capire che a predominare sia Xhaka. È lui infatti a lanciare le provocazioni, a criticare apertamente e pesantemente le scelte di Yakin, a prendersi ribalta e relative luci, a concedersi sbandate che risulterebbero vietate a chiunque altro.
Al tecnico, stando così le cose, resta la parte della ballerina di seconda fila, e dunque lo vediamo di continuo gettare acqua sul fuoco, giustificare ogni uscita del numero 10, quasi sempre spiegando che le velenose parole di Granit sono state in realtà male interpretate. Murat, inoltre, ammette di tenere in grande considerazione le convinzioni tattiche del capitano, che viene coinvolto nella gestione della compagnia di giro e col quale assicura di avere un rapporto franco, sereno e paritario.
Per quanto ne sappiamo noi che guardiamo tutto dall’esterno, può anche darsi che ciò corrisponda al vero. Ma, come detto, quel che vediamo dalla platea ci pare assai diverso: fra i due litiganti, uno ci sembra – e parecchio – subalterno all’altro. In una situazione normale, però, fra capitano e selezionatore a comandare e ad apparire come il più forte dovrebbe essere quest’ultimo.
Eccezioni potrebbero essere concesse, al limite, per Maradona e Messi, e francamente non mi pare che Xhaka, per quanto fornito di piedi educati e cervello non banale – doti che ne fanno uno dei migliori calciatori della storia rossocrociata – possa essere paragonato ai due semidei argentini. Fra l’altro, del tutto fuori luogo è parsa l’esultanza di Xhaka a Sion dopo il suo gol contro Andorra, con l’indice portato su labbra e naso a zittire tutti quanti. Fossimo in confidenza, gli direi: vola basso, Granit, in fondo hai segnato a una squadra che alle nostre latitudini farebbe fatica a salvarsi in Terza lega, e oltretutto dopo un primo tempo pietoso, tuo e dei tuoi compagni.
Ripeto, non escludo che dietro le porte chiuse del camerino elvetico le gerarchie tradizionali vengano rispettate, e che a scrivere il copione e ad assegnare le parti sia il capocomico. L’impressione generale però – soprattutto fra stampa e tifosi – è che a gestire la tournée sia invece il primattore.
Il problema è che, giusta o sbagliata che sia, questa sensazione va inevitabilmente a indebolire, se non addirittura a delegittimare, il ruolo e la persona di Yakin, che pur di tenersi stretta una panchina piovutagli dal cielo – e che forse nemmeno lui stesso pensava di meritare, data l’indiscutibile inesperienza a certi livelli – pare sia più che disposto a tollerare le minzioni fuori bersaglio, le prevaricazioni e le ingerenze sempre più evidenti da parte di Xhaka.
Una simile situazione non fa bene a nessuno, tanto che alcuni giocatori come Akanji e Steffen – che fino all’altroieri come tutti negavano l’esistenza di tensioni fra Ct e capitano – sembrano ormai averne le tasche piene, e infatti iniziano ad ammettere che il clima nel clan non è poi così idilliaco come si vuol far credere.
Sono cattivi segnali, specie perché – a dispetto di un’urna amica e di una formula assai benevola – la qualificazione a Germania 2024 non è ancora certa. Se in ottobre non si vince in Israele – ed è possibilissimo, viste le ultime prestazioni – ciò che il giorno del sorteggio pareva soltanto una formalità potrebbe in realtà rivelarsi un’impresa complicata.