Convocati al posto della Jugoslavia piombata nella guerra civile, i vichinghi vinsero a sorpresa un torneo segnato dal dramma familiare di Kim Vilfort
Nei primissimi anni Novanta, l’Europa stava ridisegnando i suoi confini politici in un modo tanto drastico come non succedeva dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Germania, ad esempio, si era da poco riunificata, la Cecoslovacchia stava per lasciare il posto a due nuovi Paesi, mentre l’Urss in dissoluzione aveva assunto il nome di Comunità degli Stati indipendenti, entità guidata da Ucraina, Russia e Bielorussia e formata da 9 delle 15 ex repubbliche sovietiche. Ma, soprattutto, nei Balcani era scoppiata una sanguinosa guerra civile che, in una manciata d’anni, avrebbe disintegrato la Jugoslavia. Venne definito conflitto fratricida, ma fu in realtà la resa dei conti fra popoli che da spartire avevano ben poco, e che da decenni – o addirittura secoli – venivano costretti a convivere covando odio, rancore e desiderio di vendetta.
La situazione, oltre alle istanze politiche, nella tarda primavera del 1992 metteva parecchio in allarme anche quelle sportive. Specie quelle del pallone, visto che in Svezia stava per cominciare il Campionato europeo, a cui avrebbe dovuto partecipare anche ciò che restava della nazionale jugoslava, formata ormai soltanto da giocatori serbi. Le autorità svedesi erano assai preoccupate della presenza sul proprio territorio di questa squadra, che era già sbarcata e già aveva preso possesso del ‘ritiro’, presso il centro sportivo di Leksand. Stoccolma, in quelle settimane, stava infatti accogliendo oltre mille profughi al giorno provenienti dalle zone separatiste – specie da Zagabria – e si temevano non soltanto scontri coi tifosi serbi giunti in Scandinavia per sostenere i calciatori fedeli a Belgrado, ma anche attentati terroristici. Del resto, si trattava di scrupoli fondati: tempo prima, infatti, l’ambasciatore jugoslavo in Svezia era stato assassinato proprio da indipendentisti croati.
A premere per l’esclusione dei plavi dal torneo era soprattutto il presidente della Uefa Lennart Johansson, che fra l’altro era proprio svedese. Per poterlo fare, però, avrebbe dovuto ricevere il nullaosta della Fifa, che era invece propensa a mantenerli in gioco. A togliere le castagne dal fuoco provvide il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che il 30 maggio – in pratica una settimana prima dell’inizio della kermesse continentale – approvò la risoluzione numero 757, che imponeva agli Stati membri la cessazione dei rapporti commerciali e politici con la Jugoslavia, i quali includevano pure la partecipazione alle manifestazioni sportive.
E così, al posto della nazionale balcanica fu ripescata – come seconda nel gruppo di qualificazione – la Danimarca, i cui giocatori se ne stavano quasi tutti spaparanzati al sole della Sardegna e delle Baleari. Gli unici due a disertare le spiagge erano Micky Laudrup, che a Barcellona stava discutendo i termini del suo rinnovo coi blaugrana – che aveva appena condotto al loro primo trionfo in Coppa dei campioni – e Kim Vilfort, alle prese con problemi ben più seri: sua figlia Line, 8 anni, stava infatti combattendo una lotta terribile contro la leucemia.
Tutti i calciatori vichinghi risposero presente alla chiamata del Ct Möller Nielsen – che li pregò di sfilare le infradito e di rientrare in fretta e furia – tranne appunto Laudrup, che dopo una stagione estenuante (aveva vinto anche la Liga) preferiva riposarsi invece di andare in Svezia a giocare e perdere tre partite inutili, e ovviamente Vilfort, che per nessuna ragione al mondo avrebbe lasciato sola la sua bambina, nemmeno per pochi giorni. Al Ct dispiacque moltissimo dover rinunciare a quel mediano alto quasi due metri, ma capì le sue ragioni e ovviamente non volle insistere.
L’indomani, però, fu lo stesso Kim a richiamare, in lacrime, l’allenatore. ‘Mia figlia - disse - voleva sapere cosa stava succedendo e mi ha detto di partire tranquillamente coi miei compagni. Dice che mi guarderà in tv, come sempre’. Möller Nielsen, commosso, promise a Vilfort che avrebbe potuto tornare a trovare la bimba ogni volta che lo avesse ritenuto necessario: Svezia e Danimarca, del resto, sono vicinissime. Fatto sta che, al raduno, i giocatori si presentarono abbronzati e sovrappeso quanto basta. La stampa sghignazzò e suggerì alla Federazione danese di declinare l’invito per evitare di recare un danno d’immagine al Paese. Senza Micky Laudrup – scrissero tutti – sarà già un miracolo riuscire a superare la metà campo. Il selezionatore ad ogni modo se ne sbatté, anche perché a farlo crucciare non erano gli assenti, ma i giocatori a disposizione. Specie John Jensen, con quella sua mania di tirare sempre in porta pur avendo i piedi di ghisa: pensasse piuttosto a picchiare i più forti fra gli avversari, ’ché quello era il suo compito!
Il torneo finalmente prese avvio e alla Danimarca, all’esordio, riuscì il prodigio di bloccare sullo 0-0 l’Inghilterra di Platt e Lineker. Mica male, anche se i giornalisti non è che avessero tutti i torti: i vichinghi, in pratica, non tirarono in porta nemmeno una volta. ‘Davvero non mi sto perdendo nulla’, avrà commentato da lontano Laudrup. E in effetti c’è da immaginare che, anche fosse stato schierato, difficilmente avrebbe potuto incidere sull’andamento del match. Anche perché in campo, per quella prima gara, non c’era nemmeno suo fratello Brian, col quale si intendeva a meraviglia. Micky, 28 anni, era ormai una stella riconosciuta del calcio mondiale ed era appena stato votato miglior giocatore della Liga. Dopo una lenta maturazione nel duro calcio italiano, in Spagna aveva finalmente trovato una dimensione che sapeva esaltare le sue squisite doti tecniche. Atleta dalle gambe corte – che nel football non sono certo un difetto – il danese eccelleva nel dribbling stretto coi due piedi, divenuto la sua cifra stilistica. Se proprio vogliamo trovargli una pecca, non è mai stato un grande cannoniere, anche perché prediligeva cabotare piuttosto lontano dalla rete avversaria. Era insomma venuto al mondo per apparecchiare passaggi al bacio, che dispensava con estrema eleganza. I più invitanti erano quelli che scucchiaiava con l’esterno destro, un altro suo tratto distintivo. Reti, come detto, non troppe, ma certo mai banali: valga come esempio quella con cui nell’Intercontinentale del 1985 - dopo aver triangolato con Platini e aver dribblato il portiere Vidallé dell’Argentinos Juniors – regalò ai bianconeri il 2-2 che valeva i supplementari.
Ma torniamo a Kim Vilfort, che dopo il primo match, come d’accordo, scappò a casa dalla figlia per un paio di giorni e le raccontò ciò che succedeva in Svezia, fra allenamenti e scherzi coi compagni di squadra. Poi le stampò un bacio in fronte e se ne tornò in ritiro, dandole appuntamento dopo la partita seguente, che sarà purtroppo una sconfitta di misura contro i padroni di casa, quanto bastava per far gongolare i cronisti, che tornarono a parlare di squadretta imbarazzante. L’incontro decisivo – contro la Francia di Deschamps, Cantona e del Pallone d’oro Papin – sembrava proibitivo, e ovviamente nessuno si aspettava nulla dai danesi, se non che facessero le valigie al più presto per lasciar spazio a chi davvero sapeva giocare a pallone. Oltretutto, Kim ricevette una chiamata che lo atterrì: sua figlia ha subito un peggioramento e le sue condizioni parevano gravi. Si precipitò dunque a Copenaghen, dove la piccola Line, col suo papà accanto, si riprese immediatamente e, insieme a lui, guardò in tv i danesi battere inaspettatamente i francesi e conquistare il pass per la semifinale. L’unica nota negativa fu che, di nuovo, quel folle di Jensen sprecò un gran numero di palloni spedendoli clamorosamente lontani dalla porta nemica.
Kim tornerà titolare contro l’Olanda, che era campione in carica e dunque strafavorita da critici e bookmaker. Di nuovo, però, a giocare meglio furono i biancorossi, che subirono il 2-2 soltanto all’87’. Per quella che ormai veniva definita la Cenerentola dell’Europeo, pareva uno choc difficile da superare, ma il clan di Möller Nielsen riuscì a resistere fino al 120’. E ai rigori papà Vilfort fu glaciale, mentre Schmeichel neutralizzò il tiro di Van Basten. L’olandese era reduce da 3-4 stagioni strepitose, in cui aveva collezionato un paio di scudetti, altrettante Coppe dei campioni e ben tre Palloni d’oro. Nell’Europeo svedese, però, fu deludente: zero gol segnati e, come detto, un importante penalty fallito: eppure, inspiegabilmente, venne inserito nell’11 ideale del torneo.
Ad ogni modo, la Danimarca era in finale contro la Germania e Vilfort, che di nuovo aveva fatto una scappata a casa, promise a Line che la prossima volta le avrebbe portato in regalo la Coppa. Tutti sappiamo come la storia si concluse: i danesi, pur subendo dall’inizio alla fine, alzarono il trofeo. Forse però solo pochi ricordano che a firmare il primo gol vichingo – ovviamente con un tiraccio da lontano – fu lo sciagurato Jensen. A segnare la seconda rete invece, come nella favole, fu proprio Kim Vilfort, che riuscì dunque a mantenere la parola data alla figlioletta. La piccola Line, però, morì purtroppo poche settimane più tardi, perché nessuna favola - specie quelle danesi - può prescindere dalla componente tragica.
Questa è la nona di sedici puntate sulla storia degli Europei di calcio che ci accompagnerà fino alla vigilia di Germania 2024.