40 anni fa

La bandiera al contrario, triste presagio della guerra

Le Olimpiadi di Sarajevo sono state la fotografia di un mondo che non c'è più. E anche l'ultima gioia per un popolo devastato dalla guerra in Jugoslavia

La cerimonia d’apertura di Sarajevo 84
(Keystone)
16 febbraio 2024
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A pensarci dopo – e ci hanno pensato in tanti – la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Sarajevo conteneva già un triste presagio. Quell’8 febbraio del 1984 era stato visto però solo per quel che era, un banalissimo quanto imperdonabile errore: la bandiera olimpica – che assieme all’accensione della torcia simboleggia l’inizio dei Giochi – era stata issata al contrario.

Nemmeno otto anni dopo la città veniva assediata dai cecchini serbi appostati sulle stesse montagne che avevano ospitato atleti, delegazioni, tifosi e gare: Jahorina, il Monte Trebevic e il Monte Igman non erano più i luoghi dello slalom, del bob e dello slittino, ma campi minati; lo stadio Kosevo – dove avevano sfilato 49 Paesi e 1’272 atleti – veniva circondato da cimiteri improvvisati (lo è ancora) perché non si sapeva più dove seppellire i morti; gli impianti sportivi sorti nel centro della città bosniaca venivano colpiti a ripetizione perché l’idea di chi assediava era annientare sia fisicamente che psicologicamente i sarajevesi: disintegrare un simbolo potente come l’Olimpiade non era un danno collaterale, era un obiettivo.


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Un momento della cerimonia inaugurale

Quei Giochi che annunciavano tragedie stavano già nascendo sotto una cattiva stella: a memoria d’uomo, da quelle parti, non c’era stato ancora un inverno senza neve, ma a 24 ore dalla cerimonia inaugurale non se n’era visto nemmeno un fiocco. Nevicò all’ultimo momento, come in quei film in cui l’eroe si salva la pelle nell’ultimo fotogramma. Troppo tardi, probabilmente, in un Paese normale. Ma la Jugoslavia, da quasi 4 anni orfana di Tito, non era un Paese normale. Nello spazio di poco tempo, e con ancor meno tempo a disposizione, il problema si era ribaltato da “dove trovare la neve” che non c’era a “come livellarla” perché era troppa. Bisognava intervenire sulle piste e il presidente della Federazione internazionale di sci, lo svizzero Marc Hodler, preoccupato, chiese al presidente del Comitato olimpico bosniaco, Branko Mikulic, come si poteva risolvere il problema: “Ci vorranno mille e più persone per spianare le piste, dove le trovate con così poco preavviso?”. Secondo chi c’era, Mikulic rispose: “Cinquemila bastano?”.

La Jugoslavia restava pur sempre un Paese comunista dove c’era chi dava ordini (anche folli) e chi eseguiva, in qualche modo. Ma era anche la nazione dell’Est che aveva più contatti con l’Occidente. Nonché capofila – con India ed Egitto – del movimento dei Paesi non allineati. Insomma Sarajevo – storico crocevia balcanico in cui convivevano pacificamente le quattro principali religioni (cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani) – era il luogo perfetto dove far andare d’accordo il mondo per almeno due settimane. Di lì a poco gli jugoslavi non andranno nemmeno d’accordo tra loro.


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Gli impianti distrutti e abbandonati

Furono le prime Olimpiadi invernali disputate nell’Est Europa e cascarono proprio in mezzo a due delle edizioni più contestate della storia dei Giochi, quella di Mosca 1980, boicottata dagli americani (e da altri 64 alleati, tra cui Giappone, Germania Ovest, Canada e Cina), e quella che si sarebbe svolta di lì a qualche mese a Los Angeles, controboicottata dai sovietici e da altri sei Paesi sotto la loro sfera d’influenza (Bulgaria, Germania Est, Mongolia, Vietnam, Laos e Cecoslovacchia).

Era un altro mondo, quello della Guerra Fredda, dove la prima storica medaglia olimpica invernale della Jugoslavia, Jure Franko (argento nello slalom gigante), esultava per due motivi: il secondo posto e la promessa di un videoregistratore. La foto di Franko (poi divenuto sloveno con la dissoluzione del Paese), sempre la stessa – lui quasi accucciato mentre aggira una porta rossa con la scritta e il logo dell’Olimpiade – campeggia ancora in tanti bar, negozi e case di Sarajevo, come simbolo e attimo fuggente di un tempo fortemente rimpianto, mentre la città – assediata oggi dalle mafie come un tempo lo fu dai cecchini serbi – prova a ricostruirsi.

La pista di bob devastata è diventata uno dei luoghi più amati e fotografati dai turisti, ed è tornata anche l’ovovia che porta al Trebevic; nel palazzetto di Skenderija – fatiscente e insieme affascinante – oggi si gioca a basket e si tifa pacificamente Bosnia. Davanti alla stazione resta però un cartello d’epoca con Vucko, l’amatissimo lupetto-mascotte dei Giochi, crivellato di colpi: nessuno lo rimuove, non si sa se per pigrizia o per coltivare la memoria. Lì c’è il perfetto riassunto di tutto, dei tempi felici e di quelli disperati, delle Olimpiadi e del loro contrario.


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Il cartello con la mascotte Vucko crivellato di colpi