John Slettvoll è tornato a Lugano, dove è entrato nella Hall of Fame del club: ‘Arrivare qua fu un’occasione unica, allora viaggiare non era così facile’
Non lo nego, un po’ di pelle d’oca e una certa commozione mi è arrivata quando ieri mattina ho rincontrato dopo tantissimi anni il ‘Mago’ John Slettvoll. L’appuntamento per noi giornalisti era alla presentazione dell’ottavo membro della Hall of Fame del Lugano. Dopo Alfio Molina, Bernhard Cotè, Bruno Rogger, Silvano Corti, Fredy Lüthi e Glen Metropolit (primo non giocatore a ricevere tale riconoscimento; è stato anche l’unico assente, ma scusato, visto che ieri sera ha giocato anche il “suo” Davos), la scelta è caduta sull’ex allenatore John Slettvoll. Premetto che già nel 1983, quando lo svedese arrivò per la prima volta sulle rive del Ceresio, scrivevo già - come giornalista - delle imprese dell'Hockey Club Lugano, quindi ho avuto la fortuna e l’onore di poterlo accompagnare in questa incredibile e lunga avventura luganese.
Ben quattordici le stagioni passate a Lugano, delle quali le prime nove consecutive, 539 partite sulla panchina bianconera, quattro titoli svizzeri conquistati, 354 vittorie, 45 pareggi (ai tempi esisteva ancora) e 140 sconfitte. Insomma: numeri da capogiro. Un personaggio unico nel suo genere, con una grande personalità, profondo conoscitore dell’hockey, ha portato il club bianconero ai vertici dell’hockey svizzero, conquistando dappertutto consensi ed elogi.
Il Lugano ha voluto così celebrare il suo più bravo allenatore, con una bella cerimonia, alla presenza, come detto, degli altri membri delle Hall of Fame e del Ceo Marco Werder. Purtroppo assente, invece, la presidente Vicky Mantegazza, alle prese con una brutta influenza.
«Ricevere questo premio è un grande onore per me – le prime parole di Slettvoll, dopo la consegna di una maglia personalizzata, una targhetta ricordo e di un anello –, quarant’anni fa andare in un nuovo Paese non era così semplice. Oggi tutti si spostano senza problemi, a quei tempi non era così. Arrivare in una nuova nazione, essere accettato, trovarsi a lavorare in un contesto nuovo, con grande responsabilità, è stata un’occasione unica nel suo genere. Mi prendo quindi in questi giorni, durante i quali rimarrò a Lugano, la possibilità per ringraziare ancora una volta con grande affetto una persona che ha pensato che il sottoscritto fosse in grado di dare una mano alla causa del Lugano, mi riferisco a Geo Mantegazza. Mi ricordo ancora molte bene la prima volta che ci siamo visti. Una chiacchierata che è durata fino alle tre del mattino. Le questioni da discutere erano tantissime. Prima di partire avevo detto a mia moglie che non avrei firmato immediatamente e invece ho sottoscritto subito. Essere accettato da un’altra cultura non era semplice. Quindi voglio ringraziare tutti i giocatori che ho avuto ai miei ordini. Senza di loro non avrei potuto fare niente, da soli nell’hockey non si arriva da nessuna parte. Hanno tutti voluto lavorare per un traguardo unico. Abbiamo creato un’atmosfera unica. C’era l’etica di lavoro, ma non solo, ci siamo anche divertiti insieme: non si può lavorare per 24 ore al giorno. Voglio ringraziarli uno per uno, senza nominare nessuno in modo particolare, prima viene la squadra, poi il resto. Naturalmente non voglio dimenticare i nostri incredibili tifosi. A loro abbiamo promesso che avremmo scalato la montagna più alta. I fan ci hanno sempre seguiti, erano il sesto giocatore in pista. Abbiamo lavorato per vincere, ci siamo riusciti. Ancora un grazie a tutti, una famiglia incredibile. Sembrava di essere a casa, la nostra seconda patria…..pardon la terza perché sono per metà anche norvegese. Sono molto emozionato per aver rivisto, tante persone care. Le medaglie sono importanti, ma le vittorie e le memorie, quelle rimangono».
Slettvoll che ieri sera era presente al derby, si fermerà qualche giorno a Lugano, accompagnato dalla figlia e dalle due nipoti. L’ex allenatore del Lugano ha ricordato molti momenti accaduti nella sua lunghissima presenza sulle rive del Ceresio. «Sono arrivato a Lugano con una mia chiara filosofia che ho sempre voluto portare avanti. Dall’altra parte anche il club, la società ha una sua personale opinione. Mi ripeto, la squadra è il numero uno, l’allenatore il numero due. Poi non dimentichiamo che ognuno di noi deve poter sempre guardarsi allo specchio. Per quale motivo ho fatto una cosa? Solo per la gloria, solo per i soldi? Non è possibile. Ci sono gli alti e bassi, ma bisogna essere soprattutto coerenti con se stessi. Mi ricordo che il mio fedele amico e collaboratore Fausto Senni un giorno mi disse: “La vita è troppo corta per litigare sempre, bisogna dimenticare e trovare una soluzione per poter andare avanti”».