Parla lo sfortunato attaccante del Lugano, tornato in gol domenica dopo mesi difficili e ben due incidenti. 'È la voglia di tornare che ti sorregge'
Alla fine arriva anche la rete. In shorthand, a porta vuota («ma un gol è sempre un gol», dice lui), a coronamento di un'altra domenica di festa. Per un Lugano che continua a vincere, certo, ma pure per un Raffaele Sannitz che trova sempre più tempo e spazio sul ghiaccio. Dopo mesi davvero poco difficili, in un 2020 devastato prima dal pauroso incidente stradale in cui il trentasettenne centro bianconero era rimasto coinvolto a settembre sull'autostrada A13, senza averne alcuna colpa, poi da quel disco che l'aveva colpito in pieno volto a dicembre, in allenamento, che gli era costato addirittura 45 punti di sutura. «Certo, segnare fa sempre piacere, ma se in tutta la mia carriera non mi sono mai messo a contare le reti, figuriamoci se comincio adesso – racconta il generoso attaccante di Mendrisio –. Non sono uno che segna molto, lo so bene: per me ciò che conta è riuscire ad aiutare i compagni a vincere le partite».
Dai cinque minutini trascorsi sul ghiaccio contro il Losanna, pur tenendo conto delle assenze in una settimana sei passato ai quattordici delle sfide contro Friborgo e Bienne. «Di sicuro mi sento sempre meglio. In un anno difficile per me, in cui sono stato assente a lungo (aggiunge con un sorriso, ndr), non è stato facile riuscire a ritrovare il ritmo. Però mi sono sempre allenato, e sempre mi sono messo a disposizione della squadra: direi che nelle ultime uscite le cose sono andate bene».
Quando c'era da difendere, soprattutto. «Con Walker c'è un bel feeling, in boxplay formiamo una buona coppia: ci sta utilizzando tanto (dice, alludendo a Pelletier, ndr), noi stiamo lavorando bene, coscienti di quanto le situazioni speciali siano importanti in partita. Ed è bello quando ti accorgi che puoi dare una mano alla squadra. Vale naturalmente anche a cinque contro cinque, dove il mio compito non è solo essere solido difensivamente, ma pure portare energia e riuscire a creare qualcosa offensivamente».
A proposito di energie: questi ultimi mesi per te devono essere stati a dir poco frustranti... Tu credi nella fortuna? «Sinceramente, semplicemente mi dico che certe cose possono capitare. Anche ripensando all'incidente: so benissimo che certe non le puoi controllare, quindi è inutile stare a pensarci. Succedono, punto. Bisogna andare avanti. Certo che, però, fa rabbia sapere che prima di quell'episodio ero pronto fisicamente per cominciare la stagione dall'inizio, dopo un estate in cui mi sentivo in forma, e invece sono dovuto star fuori due mesi e mezzo. Naturalmente, a quel punto l'obiettivo era tornare ai livelli di prima: sapevo che ci sarebbe voluto del tempo, che avrei dovuto avere pazienza, soprattutto considerando la mia età, ma comunque non è stato facile».
Anche perché quando sei tornato in pista, dopo una quarantena, oltretutto, hai dovuto fare i conti con un secondo incidente, quel violento tiro ricevuto in pieno volto durante un allenamento. C'è chi dice che se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo... «Già (ride, ndr). Direi che per me è stato terribile quasi tutto il 2020. Tuttavia... Tuttavia l'unica cosa che puoi fare è andare avanti: non vedevo l'ora che finisse l'anno e cominciasse il 2021, e adesso che è arrivato cerco di affrontarlo con spirito positivo, mettendomi tutto alle spalle. Anche perché, a cosa servirebbe tornare indietro con la mente a ripensare? Non cambierebbe niente. E poi certe cose non capitano mica solo a te. Prendiamo le discate in faccia: è successo a me, è vero, ma l'altra sera (a Friborgo, ndr) è capitato anche a Lajunen».
Del resto, in uno sport come l'hockey ci si fa per forza la pelle dura. «Questi infortuni senz'altro non erano una novità per me, ne ho avuti così tanti in carriera... Direi comunque che sono stato aiutato dalla passione che ho per questo sport, dalla voglia che ho di giocare. Infatti è quel desiderio di tornare che ti sorregge quando ti ritrovi lì, con la spalla bloccata per oltre un mese. Ed è quella stessa passione che ti fa andare avanti nelle giornate in cui devi allenarti da solo, oppure soltanto pattinare, perché non sei ancora in grado di farlo con i compagni».
Quella pelle dura, quando smetterai di giocare te la porterai appresso? «Indubbiamente – conclude Sannitz –. Per me l'hockey era ed è una scuola di vita. In tutta la mia carriera ci sono stati molti momenti difficili che ha sempre saputo affrontare, e io credo che se qualcuno ha la determinazione e la passione per ciò che sta facendo, è senz'altro in grado di superare anche gli attimi più delicati. Vale dappertutto, non soltanto nell'hockey».