Il tecnico dell'Ambrì si schiera contro l'allargamento del contingente dal 2022. 'L'idea di base è giusta ma la soluzione è cattiva, non ho problemi a dirlo'
Non ci fosse la pandemia, l'altra sera a Davos Luca Cereda e il suo Ambrì sarebbero scesi in pista per la Coppa Spengler, invece per il campionato. «Sono tempi difficili, è una fase triste della nostra vita» dice il tecnico ticinese, approdato sulla panchina biancoblù nell'estate del 2017, ciò che fa di lui l'allenatore in carica da più tempo nella massima serie. Per il trentanovenne di Sementina, tuttavia, è un bene che – viste le premesse – eccezionalmente quest'anno in campionato si continui a giocare anche durante le festività natalizie. «Sì, perché dobbiamo portare a termine la stagione a tutti i costi – spiega –. Ciò che è negativo, semmai, è che dal mese di agosto in poi non abbiamo ancora potuto fare una vera pausa. Tuttavia dobbiamo sacrificare qualcosa per continuare a giocare, e così facendo possiamo dimostrare di restituire qualcosa alla gente. E trovo sia una gran cosa».
In Svizzera si parla da qualche tempo dei cambiamenti che potrebbero vedere la luce nella stagione 2022/2023, un pacchetto di riforme in cui, oltre al possibile aumento di numero di stranieri tesserabili (si parla addirittura di dieci, pur controbilanciato dalla sparizione delle famose licenze svizzere), figurano tra le altre cose l'introduzione di una specie di tetto salariale (il cosiddetto fair-play finanziario) e l'abolizione definitiva della retrocessione. Per il momento, l'unico club totalmente contrario all'approvazione del pacchetto è lo Zurigo, ma più passano le settimane, più tra gli addetti ai lavori, ma non solo, cresce la voce di chi vi si oppone. Magari limitatamente a questo o quel provvedimento. Come il suo, l'Ambrì appunto, contrario all'allargamento a dieci stranieri. «Ma lo sono anche io, come allenatore – spiega Cereda –. Penso che in generale si perderebbe quella che è la nostra identità nell'hockey, infrangendo il sogno di molti giovani. L'idea che sta alla base del concetto è certamente giusta, perché econonicamente ci sono molti club in difficoltà, ma penso che quella dei dieci stranieri sia una cattiva soluzione, e non ho problemi a dirlo».
In Svizzera, secondo lei i giocatori guadagnano troppo? «Sì, molto probabilmente i salari sono un problema. Da quando ho smesso di giocare io, quindici anni fa, gli stipendi sono schizzati alle stelle».
Ma i club hanno davvero il potere di riuscire a pagare di meno i propri giocatori? «Indubbiamente. Si parla di far-play finanziario, di tetto salariale, e sono potenziali soluzioni che sono state messe sul tavolo. È chiaro che un giocatore guadagnerà sempre di più rispetto a una persona normale, anche perché durante la sua vita sarà in grado di fare il suo lavoro solo per un periodo limitato di tempo, resta il fatto che oggi i salari sono elevati. Anche se probabilmente quelle cifre non sono così alte per tutti, ma lo sono per molti».
Se ogni squadra avesse a disposizione un contingente di dieci stranieri, è possibile che un giocatore dal valore di un Nättinen sarebbe finito a Zurigo o a Berna, invece che ad Ambrì. «Non lo so, può darsi. Il mercato degli stranieri è per sua natura molto più vasto. Tuttavia, trovo che non regge l'argomento secondo cui con più stranieri pagheremmo stipendi più bassi, perché i quattro o i sei giocatori supplementari finirebbero in seconda o in terza linea. Quando guardo alla profondità della nostra panchina e a quanto ci costa, mi dico che uno straniero per effetto dei costi aggiuntivi come l'automobile, l'appartamento, i voli e l'assicurazione malattia e infortuni ci verrebbe a costare di più».
È musica del futuro, certo, ma se alla fine venisse approvato quell'intero pacchetto, il suo principale effetto sarebbe quello di chiudere la Lega, siccome sparirebbe la retrocessione. Le cosa ne pensa? «Da una parte, ciò sarebbe ovviamente positivo, perché impedirebbe che vengano prese delle decisioni affrettate, nel panico, che finiscono per costare care. Di conseguenza ci saranno club che potrebbero impiegare il proprio tempo per costruire qualcosa, accettando di chiudere la stagione all'ultimo posto, perché se l'orizzonte è quello di lavorare con i giovani, si faranno senz'altro anche errori. D'altra parte, però, se venisse a sparire la relegazione, probabilmente svanirebbe un po' anche la suspense»